Non trova pace il tentativo della Disney di confrontarsi con la leggenda cinese di Hua Mulan. Riuscire a realizzare una versione cinematografica che accontenti tutti, a oriente e occidente, si è dimostrato ancora una volta una mission impossible, uno snodo in cui finisce per impantanarsi il sogno di un kolossal davvero globale.

Al botteghino in Cina, il nuovo Mulan, un action movie da 200 milioni di dollari, ha incassato nel primo weekend 23 milioni, un risultato al di sotto delle aspettative, mentre nel resto del mondo è stato travolto dalle polemiche.

Dopo l’uscita nelle sale e sulla piattaforma Disney Plus, su Twitter ha cominciato a circolare una vignetta dell’artista dissidente cinese Badiucao. Un’incisiva rivisitazione della foto simbolo del massacro di piazza Tian’anmen: il ragazzo con le borse della spesa, però, con la mano destra sorregge un ombrello giallo – simbolo del movimento pro democrazia di Hong Kong – e fronteggia un carro armato da cui spunta la Mulan del cartone Disney, armata di spada, in posizione di attacco. La scritta rossa dice Boycott Mulan.

Il boicottaggio
Le prime proteste online contro il film americano risalgono all’agosto 2019, quando Liu Yifei, la giovane attrice protagonista, nel pieno delle manifestazioni di protesta nell’ex colonia britannica ha detto la sua sul social Weibo: «Io sto con la polizia di Hong Kong, ora picchiatemi pure». La polemica ha ripreso vigore il 4 settembre 2020, giorno dell’uscita del film, quando l’attivista Joshua Wong, uno dei leader delle manifestazioni, ha rilanciato in rete il post dell’attrice, invitando a boicottare la major americana.

La casa di produzione è di solito a perseguire la neutralità politica. In una vecchia intervista, l’ex star Disney di casa nostra Lodovica Comello ha usato queste parole per descrivere l’attività dell’ufficio compliance: «Vigila su tutto quello che fai. Devi stare attento a come ti vesti, ai loghi a cui ti associ e non puoi scoprirti troppo. Anche il modo in cui ti esprimi viene esaminato: sono bandite le opinioni, specie se riguardano politica o religione. Bisogna essere molto neutrali per abbracciare tutto il pubblico». Con Liu Yifei, evidentemente, qualcosa dev’essere andato storto. La Disney è stata duramente attaccata, inoltre, per aver girato alcune parti del film nella provincia dello Xinjiang, al centro delle attenzioni internazionali per i campi di rieducazione a cui è destinata la minoranza musulmana degli Uiguri, e per averne ringraziato le autorità nei titoli di coda. Anche per la multinazionale più dorotea del mondo rapportarsi con la Cina e con la sua tradizione culturale millenaria può trasformarsi in una questione incandescente.

Il rapporto tra la Disney e il Celeste impero, e in particolare le vicende legate alla resa cinematografica di Mulan, sono in qualche modo un termometro per capire quanto sia cambiato il Dragone, quanto sia cresciuta la sua influenza negli ultimi due decenni e quanto sia complicato trovare un canale di comunicazione efficace tra due sistemi culturali e di pensiero completamente diversi.

Quando nel 1998 sbarcò nelle sale di tutto il mondo, il film d’animazione Mulan fu un flop proprio al botteghino cinese. Riuscire a distribuire la pellicola in Cina era stata una grande conquista: si trattava della prima produzione Disney ammessa dopo il bando provocato dall’uscita di Kundun, il film di Steven Spielberg sulla storia del Dalai Lama, uno dei temi “sensibili” su cui il governo di Pechino non transige. All’epoca, la Repubblica popolare permetteva l’ingresso di meno di 10 film stranieri all’anno; oggi sono 34. Le ragioni di quell’apertura erano semplici: Mulan non è un semplice personaggio della tradizione cinese, è “il personaggio” della tradizione cinese.

I bambini imparano fin da piccoli la storia di questa ragazza e figlia devota che si arruola nell’esercito al posto del padre e combatte coraggiosamente per difendere il suo paese dagli invasori. Vittoriosa, rifiuta l’offerta di un’alta carica ufficiale e ritorna a casa. Si tratta di una leggenda che ha origine tra il quarto e il sesto secolo dopo Cristo nella Ballata di Mulan e che, tramandata per generazioni, è diventata nei secoli oggetto di rielaborazioni orali, letterarie, teatrali e, infine, televisive e cinematografiche. Il cartone animato statunitense ha contribuito a portare la sua fama fuori dei confini cinesi e, nell’immaginario collettivo, ha inserito la sua protagonista tra le “Principesse (ribelli) Disney”, assieme alla Sirenetta Ariel, alla Jasmine di Aladdin, a Elsa di Frozen e così via.

Tuttavia, qualcosa nel film del 1998 non andò nel verso giusto. Mulan è sì un’eroina, ma è un’eroina “con caratteristiche cinesi”. Se da un lato diventa una guerriera rompendo le regole e ribellandosi al ruolo di donna tipico dell’etica confuciana (figlia, moglie e madre che deve stare all’interno delle mura domestiche, mentre l’uomo agisce all’esterno), dall’altro rimane saldamente all’interno dei codici prevalenti nella sua società: lealtà, coraggio, onestà e soprattutto xiao, “pietà filiale” o - come traducono nella nuova trasposizione cinematografica Disney - “devozione alla famiglia”. Il carattere xiao, che sottende anche il significato di amore e rispetto, è un cardine del confucianesimo, il sistema valoriale che ancora oggi regola le dinamiche identitarie e culturali del Dragone. Lavorando su sé stesso, l’individuo può estendere la propria mansuetudine agli altri, dando vita a relazioni in cui il rispetto reciproco e gerarchico sono fondamentali. Il singolo è subordinato al contesto in cui opera. Non a caso, la Ballata di Mulan inizia con l’immagine di Mulan tessitrice e finisce con l’immagine di Mulan figlia: dopo aver salvato il suo paese, rinuncia alla gloria e torna a casa perché il suo dovere è prima di tutto quello di essere figlia. L’accoglienza del film nella Repubblica popolare fu molto tiepida perché i cinesi si sentirono offesi.

Non scherzare con il drago
Gli sceneggiatori americani sembravano non aver compreso i profondi risvolti morali contenuti nella storia: avevano occidentalizzato con superficialità un racconto ontologicamente cinese, svilendolo con l’inserimento di elementi giudicati irrispettosi. A cominciare dai tratti del viso di Mulan, che non rispecchiavano la bellezza canonica cinese ma riprendevano le linee stereotipate riconoscibili dai laowai, gli stranieri; la protagonista, in una scena, veniva vestita e truccata da geisha, figura tipica della cultura giapponese; la struttura da musical comprometteva l’eroicità del racconto; il co-protagonista della storia, il draghetto Mushu, doppiato in originale da Eddie Murphy e in Italia da un sorprendente Enrico Papi, probabilmente il personaggio più amato del cartoon, risultava oltraggioso perché imbranato e goffo (in Cina il drago è un simbolo preso molto sul serio, indica forza e potenza: i cinesi stessi si definiscono “discendenti del drago”).

Soprattutto, il film di animazione esprimeva i valori occidentali legati al percorso personale e individuale di crescita della protagonista, tralasciando completamente quelli cinesi di patriottismo e devozione alla famiglia che la leggenda di Mulan aveva da sempre veicolato.

Per la Disney, il flop in sala fu un brutto colpo, ma il cartone nel mondo incassò comunque 450 milioni di dollari. In fondo il mercato cinematografico del Celeste impero di fine anni Novanta non era ancora particolarmente attrattivo per le case di produzione occidentali. La Cina era un paese in via di sviluppo, la fabbrica del mondo che produceva fake e beni di bassa qualità. Era soltanto agli albori la sua rincorsa per diventare la seconda potenza mondiale. Col tempo, la nascita e lo sviluppo di una classe media benestante e desiderosa di investire i propri guadagni in consumi sofisticati e attività di svago hanno provocato un aumento esponenziale degli incassi al botteghino, fino a raggiungere il fatturato record di 9,2 miliardi di dollari nel 2019, in crescita del 9 per cento rispetto all’anno precedente.

Già dalla costruzione del parco dei divertimenti Disney inaugurato a Shanghai nel 2016 con un investimento di 5 miliardi di dollari, il marchio americano, consapevole di come il successo imprenditoriale in un paese come la Cina passi anche attraverso l’ascolto, ha cercato dei compromessi culturali: «Autenticamente Disney, distintamente cinese», è il motto coniato all’epoca dai manager dell’azienda. La peonia dorata, fiore cinese e simbolo di Shanghai, installata in cima alla torre più alta del castello che domina su tutte le attrazioni è solo uno dei dettagli che segnalano questo tipo di approccio.

A tratti istituzionale
Per il film su Mulan appena uscito, la Disney si è affidata a consulenti cinesi, e, secondo il Wall Street Journal, avrebbe addirittura condiviso la sceneggiatura con le autorità del Dragone, accettando input e suggerimenti. Dalla nuova versione è sparito il draghetto Mushu, non ci sono canzoni e scene comiche; non c’è traccia nemmeno della storia d’amore tra la guerriera e il generale Li Shan, inopportuna in quanto a lui gerarchicamente superiore in grado. Il nuovo Mulan è un film epico e serioso, a tratti istituzionale. La scena finale sembra quasi uno spot per la politica di recupero dei valori confuciani promossa con forza dal Presidente Xi Jinping e volta a colmare il vuoto spirituale provocato dalla corsa al benessere.

Eppure, anche questa volta, la Disney non è riuscita a conquistare il cuore dei cinesi. Su Douban, una piattaforma che raccoglie le recensioni dei film, Mulan ha ottenuto solo 4.7 punti su dieci. I netizen si sono scatenati contro la scelta di usare un tulou, l’abitazione collettiva tradizionale della minoranza etnica Hakka, diffusa nella provincia del Fujian nella Cina meridionale, come casa di Mulan e della sua famiglia, in realtà originari del nord. Addirittura, il quotidiano Global Times, organo ufficiale del Partito comunista cinese, ha pubblicato un editoriale per sottolineare come «la storia tradizionale cinese avesse un tema patriottico molto forte che nel film è stato sostituito da una storia di soldati che proteggono ciecamente un re».

La vicenda di Mulan ci dice quanto rimanga complesso il dialogo tra due culture difficilmente permeabili l’una all’altra, che però hanno molto da dirsi. Questa volta è andata come ha ben sintetizzato in un tweet la giornalista Vivienne Chow, esperta di arte e cinema per, tra gli altri, la Bbc e il New York Times: «Sembra una storia d’amore sfortunata: cerchi di accontentare troppo il tuo amato – cucinando, sbrigando tutte le faccende domestiche e addirittura rivoluzionando il tuo stile e il tuo aspetto – ma, alla fine, quello ti lascia».

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