Come succede con tutti i media, anche su Netflix si trovano spesso dei fiori rari, benché soffocati dalle inevitabili e inesauribili erbacce. Due di questi fiori rari sono le serie Grandi eventi della Seconda guerra mondiale a colori (2019) e Tokyo trial (2017): la prima è un documentario anglo-tedesco in dieci puntate sulle vicende salienti del conflitto, e la seconda una docufiction giapponese in quattro puntate sul processo ai gerarchi nipponici iniziato il 29 aprile 1946, esattamente tre quarti di secolo fa.

Naturalmente, in questo lungo periodo sono stati girati innumerevoli film sulla Seconda guerra mondiale, che però sono sempre e solo dei film, appunto, e troppo spesso arrivano da Hollywood. Ma le finzioni in generale, e quelle inventate dai vincitori in particolare, non sono affatto il miglior modo per informarsi sulla realtà storica: meno che mai per i giovani, che non avendo ormai più nessun legame concreto con i lontani eventi della guerra, rischiano di diventare facili prede della propaganda politica e ideologica post-bellica.

Ben vengano dunque serie documentarie come le due citate. La prima delle quali, fedele al proprio titolo, permette di vedere con i propri occhi alcuni grandi eventi della Seconda guerra mondiale a colori. Cioè, un florilegio di reportage d’epoca, girati in prima linea e colorati al computer, sui momenti salienti del conflitto: la ritirata di Dunkerque, la battaglia d’Inghilterra, l’attacco a Pearl Harbor, la battaglia delle Midway, l’assedio di Stalingrado, lo sbarco in Normandia, l’offensiva delle Ardenne, il bombardamento di Dresda, la liberazione di Buchenwald e la bomba atomica di Hiroshima.

La seconda serie colma un vuoto lasciato dalla prima, relativo al destino di coloro che la guerra non l’avevano solo combattuta o subita, come i soldati armati e i cittadini disarmati, ma voluta, pianificata, dichiarata e condotta: cioè, Hitler e Hirohito, da un lato, e i gerarchi nazisti e nipponici, dall’altro. Com’è noto, il führer tedesco si suicidò poco prima della caduta di Berlino, mentre il mikado giapponese fu scandalosamente lasciato sul trono dagli Alleati: se Hitler fosse sopravvissuto, avrebbero mantenuto pure lui al potere, limitandosi a processare i suoi subordinati?

Il punto di vista dei perdenti

L’unico risibile debito che fu fatto pagare a Hirohito per i suoi crimini di guerra è la Dichiarazione di umanità da lui firmata il 1 gennaio 1946, in cui l’imperatore ammetteva di «non essere di natura divina», pur avendo comunque ribadito pochi giorni prima di «discendere dagli dèi»: per la precisione, da Amaterasu, dea del Sole shintoista. Dopo la guerra Hirohito regnò per altri 44 anni sul Giappone, rimanendo per ben 62 anni sul trono, e quando morì nel 1989 era ormai l’unico imperatore rimasto al mondo.

Uno dei motivi di interesse delle due serie Netflix deriva dal fatto che la prima è stata co-prodotta dai tedeschi, e la seconda prodotta dai giapponesi: esse riflettono dunque anche il punto di vista dei perdenti, ed entrambe affrontano argomenti a lungo considerati tabù, sia in occidente che in oriente. In particolare, fino al 1989 nessuno in Giappone osò discutere pubblicamente il problema delle responsabilità morali e politiche di Hirohito: la sua spinosità si percepisce palpabilmente ancora oggi, dal modo in cui viene affrontato nelle discussioni fra i giudici del Tokyo trial.

Ancora più sorprendenti, almeno per noi, sono i candidi giudizi che affiorano qua e là nei Grandi eventi a proposito dei crimini di guerra compiuti dagli Alleati, alcuni non meno efferati di quelli perpetrati dall’Asse Roma-Berlino-Tokyo. Asse a cui appartenevamo anche noi, ovviamente, benché nei nostri confronti non solo le due serie Netflix, ma anche la Storia internazionale, mostrino lo stesso sprezzante disinteresse di Dante verso gli ignavi.

Tempeste di fuoco

Due dei crimini di guerra alleati sono oggetto di altrettante puntate dei Grandi eventi. La prima riguarda le cosiddette “tempeste di fuoco”: cioè, gli incendi naturali o artificiali che avvengono quando le correnti calde generate dalla combustione producono un “effetto camino”, che autoalimenta il fuoco fino al completo esaurimento del combustibile. Quest’ultimo, nel caso dei bombardamenti, non è altro che la sfortunata città che subisce la tempesta di fuoco, e ne viene completamente consumata.

Innescare una tempesta di fuoco artificiale è molto difficile, e richiede da un lato una perversa pianificazione, consistente in bombardamenti a tappeto con flotte di aerei che si accaniscano senza sosta su una città per intere giornate, e dall’altro lato delle condizioni atmosferiche particolarmente favorevoli all’innesco di una metaforica reazione a catena. Gli Alleati ci provarono spesso, ma riuscirono completamente nel loro diabolico intento soltanto tre volte: il 28 luglio 1943 ad Amburgo, il13 e 15 febbraio 1945 a Dresda, e il 10 marzo 1945 a Tokyo, mietendo rispettivamente 40mila, 25mila e 100mila vittime, radendo completamente al suolo le città e provocando l’esodo di due milioni di sopravvissuti. In particolare, l’attacco aereo su Tokyo viene ritenuto il più distruttivo di tutta la storia bellica.

Bombe atomiche

L’ultima puntata dei Grandi eventi riguarda invece le bombe atomiche del 6 e 8 agosto 1945 su Hiroshima e Nagasaki, che fecero 300mila vittime, e i cui effetti collaterali sono tristemente ben noti. Oggi vanno considerate il più efferato attacco terroristico della storia, in base all’Atto per combattere il terrorismo internazionale approvato il 19 ottobre 1984 dal Congresso degli Stati Uniti, che stabilisce: «È da considerarsi atto di terrorismo qualsiasi attività che: a) implichi un’azione violenta o pericolosa per la vita umana, che costituirebbe un crimine se commessa all’interno degli Stati Uniti; b) sia rivolta a intimidire la popolazione civile con l’uso della forza, o a influenzare in modo coercitivo la politica di un governo».

Naturalmente, qualcuno potrebbe giustamente obiettare che non si dovrebbero applicare retroattivamente le leggi o i criteri etici moderni per condannare le azioni belliche effettuate nel passato, quando quelle leggi o quei criteri non erano ancora in vigore. E infatti qualcuno lo obiettò fin da sùbito, ma dalla parte opposta: precisamente, dai banchi della difesa dei gerarchi nazisti processati a Norimberga, e dei gerarchi giapponesi processati a Tokyo. Ovviamente, senza grande successo: 12 pene capitali furono comminate nel primo processo, e sette nel secondo, per “crimini di guerra, crimini contro l’umanità e crimini contro la pace”, nessuno dei quali sancito all’epoca dalla giurisprudenza internazionale.

Oltre che dalla difesa degli imputati, furono sollevate critiche anche da parte di alcuni giudici dei due tribunali, e di alcuni politici dei paesi vincitori. In particolare, Tokyo trial ricostruisce efficacemente le conversazioni tra l’indiano Radhabinod Pal e il filippino Delfin Jaranilla, che si batterono per mantenere il procedimento sul piano del diritto dei giusti, e non della vendetta dei più forti. Fu a causa loro che il processo di Tokyo durò due anni e mezzo, a fronte dei soli dieci mesi di quello di Norimberga, anche se alla fine la relazione di minoranza fu firmata soltanto da Pal: in 1200 pagine egli mise in dubbio la legittimità giuridica del tribunale, ed elencò il colonialismo occidentale, i bombardamenti di Tokyo e le bombe atomiche tra i crimini asiatici che un tribunale imparziale avrebbe dovuto processare, alla pari di quelli commessi dal Giappone.

Persino negli Stati Uniti si erano già levate critiche dello stesso tenore contro il processo di Norimberga, addirittura nella Corte suprema. Il presidente Harlan Stone l’aveva definito «un linciaggio di alto livello» e «una frode». Il giudice William Douglas aveva protestato per «la sostituzione del diritto con la forza», e per «la promulgazione di leggi retroattive per soddisfare l’esaltazione e il clamore del momento». E nientemeno che Robert Jackson, il Grande Inquisitore al processo, in congedo dalla Corte suprema, aveva ammesso in una lettera a Truman: «gli Alleati hanno fatto, e stanno ancora facendo, alcune delle cose per le quali stiamo processando i nazisti». Ma più che i pareri espressi sottovoce dai giuristi per i giuristi, a colpire il pubblico furono le aperte critiche di Robert Taft, leader di maggioranza al Senato e figlio di William Taft, ex presidente degli Stati Uniti. Il figlio sembrava avviato a seguire le orme del padre, e a diventare il candidato repubblicano alle elezioni presidenziali del 1948, ma si alienò le simpatie del partito e degli elettori dichiarando onestamente: «Su tutto il giudizio di Norimberga aleggiò lo spirito di vendetta, e la vendetta raramente è giustizia. L’impiccagione degli undici condannati (il dodicesimo, Hermann Göring, si era suicidato la notte prima dell’esecuzione, ndr) rimarrà come una macchia sulla fedina penale americana, di cui ci rammaricheremo a lungo».

Ritratti del coraggio

In realtà pochi se ne rammaricarono allora, e quasi nessuno se ne rammarica ora.

Una notevole e inaspettata eccezione è costituita da John Kennedy, che nel 1955 scrisse un libro intitolato Ritratti del coraggio, per il quale vinse due anni dopo il premio Pulitzer.

All’epoca Kennedy era un giovane senatore democratico, ed evidentemente si stava documentando sui suoi predecessori al Senato statunitense.

Scrisse dunque le biografie di otto colleghi che si erano distinti per integrità e coraggio, e uno di essi era appunto Robert Taft.

Di lui Kennedy riporta la frase citata sopra, oltre alla condanna del conflitto di interessi tra i ruoli di “vittime, accusatori e giudici” al processo di Norimberga.

E le fa precedere da una propria dichiarazione, molto utile per giudicare il ruolo degli Stati Uniti nelle vicende narrate dalla serie Tokyo trial.

«La Costituzione non era una collezione di vaghe promesse politiche soggette ad ampie interpretazioni. Non era una lista di piacevoli banalità da accantonare con leggerezza, quando serve. Era il fondamento del sistema legale e giuridico americano, e Taft fu disgustato dall’immagine del proprio paese, quand’esso dismise quei precetti costituzionali».

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