Questa è la versione italiana di un brano tratto dal primo capitolo di Magical Habits, il libro d’esordio di Monica Huerta, tra le prime (e pochissime) titolari di cattedra di origini messicane alla Princeton University. All’inclassificabile crocevia tra narrativa e speculazione critica, memoria personale e destini generali, questa pagina è l’indagine di un padre, dei suoi oggetti e delle sue abitudini, del cosiddetto sogno americano, di cosa significhi migrare sul lungo tempo che scandiscono le generazioni. Uscito lo scorso agosto per Duke University Press, Magical Habits è stato recensito sul New York Times e già adottato in numerosi corsi di letteratura, antropologia e studi culturali a Duke, Princeton, USC, UCL, Tufts e altrove.

Le sue cinture si chiudevano su grosse fibbie d’oro e d’argento incise, con su la figura (a volte tempestata di zirconi) di un cavallo o di un ferro di cavallo, oppure il suo nome. Parece un ranchero diceva mia madre, e il tono bastava a farmi capire, prima che potessi sapere precisamente cosa intendesse, che a quella parola non avrei mai voluto corrispondere. Quella parola, d’altronde, non sapevo ancora collocarla in alcun luogo, figuriamoci uno stile o, men che meno, una storia, un tempo. Non sapevo neanche, allora, che certe parole covano al contempo ostilità e aspirazioni; che hanno, in sé, un punto di vista sulle cose.

Dopo gli anni dell’Ultra SlimFast, le sue cinture cominciarono a riportare inciso solo il nome dello stilista, nascosto nel lato interno del cuoio. Rispondevano al desiderio di credere in un mondo di soli trionfi; nella favola per cui, alla fine, si diventa naturalmente sofisticati – e le dita schioccano, e battono i tacchi, e puf zap magia, abracadabra. A un certo punto impari magari cosa significa avere gusto, che il gusto, magari, ha qualche importanza. E poi, ma più tardi, che l’importanza si paga sempre col sangue di qualcun altro. E alla fine eccoti qui, a districarti tra le spire di quel che c’è di onesto e dolce nella voglia che hai di gioie piccole, di epiche vittorie.

Una specie d’amore

Il suo broncio facile le ricordava «quel telefilm con Archie Bunker» – così chiamava il suo show preferito: «quello con la moglie», diceva, «che suona il piano, e con la figlia caruccia». Com’è che chiama il genero cretino? ¡Ja ja ja! ¡Sí! Meathead. Cara de torta! Face of sandwich/hoagie. La traduzione giusta, sebbene non corretta, sarebbe Hoagie-Face, faccia di panino: Cabeza de carne, Carne cabeza. Non ho però cuore di spiegarle la differenza. Quali orizzonti genealogici contemplano la possibilità che sia tu, in realtà, a guardare i tuoi genitori diventare grandi (o rifiutarsi di farlo), e non viceversa?

Lei diceva che lui parla sempre a vanvera. Che pensa più in fretta di quanto non possa parlare, che bisognerebbe andargli appresso con un registratore. Che si dimenticherebbe pure la testa, se non fosse attaccata al collo. Il sarcasmo talvolta nasconde pietà (una varietà diversa d’accusa) ma almeno la pietà comporta una specie d’amore – e alla fine, se ci si prende cura di te quando sei in terra morente, che differenza c’è? O meglio, la differenza c’è, ma è stupefacente quanto appaia piccola da quella prospettiva postrema.

Indipendentemente dalle cinture o dalla forma della sua pancia, i pantaloni gli calavano. Formavano una piega concava. In tutta la mia famiglia, il suo è l’unico sedere tanto piatto da far sì che il tessuto si sformi in un accumulo vuoto dietro alle cosce, proprio dove i miei di pantaloni sono più pieni – non proprio attillati ma pieni, tesi, drammatici. La domenica mattina faceva colazione in mutande, bianche come la maglia della salute, poi tornava su per le scale e attraversava il corridoio per raggiungerci nella stanza in cui facevamo colazione noi. Sorridevo quando mia madre e mia sorella ridevano di quel sedere, dimostrando di nuovo quanto facilmente la promessa dell’imbarazzo di qualcun altro possa migliorare la qualità del tuo risveglio.

Acque di colonia

Dove dovrebbero esserci muri, nel loro bagno, ci sono invece specchi fino al soffitto. Mi ricordano quanto freddo sia il pavimento contro i miei piedi al mattino. Questo è un bagno padronale. È importante sapere se una casa ce l’abbia o no, ma non saprei dire perché – e una vecchia abitudine mi spinge a domandarmi chi abbia deciso, e quando, che le case dovessero scegliere tra i bagni un padrone, e se quel bagno eserciti poi un potere speciale su tutti gli altri, e cosa significhi “potere” esattamente. Le parole che accompagnano altre parole sono importanti. Il nome di questo gioco è: contesto.

Dopo aver fatto la doccia, dopo essersi asciugato, dopo aver infilato vestiti sopra e addosso al suo corpo, si ricopriva d’acqua di colonia: prima di un tipo, poi di un altro, poi di un altro ancora, a volte persino di un quarto, a volte persino la domenica. M’incantava guardarlo spruzzarsi, innaffiarsi, aspergersi e tamponarsi attorno al collo, sulla pancia, sul petto, giù sotto alla cintura e su fino ai capelli. Mi appariva come la versione messicana di quel bimbo sporco di Snoopy, Pig-Pen, o un Beep Beep latino – lento però, e con sbuffi di colonia intorno alla faccia invece delle nuvole di polvere ai piedi. Il fermaporte di plastica strisciava sul pavimento quando usciva dal bagno, seguito dal bacio metallico della serratura e dal pigro lamento della porta del garage.

Nel cartone animato di cui, ai miei occhi, era protagonista, chi stava andando a inseguire? Chi è che gli sfuggiva? Dal cielo sarebbero cadute molcajetes invece delle incudini? Chesperito avrebbe sostituito Willy il Coyote? Ha senso tradurre immagini quando muoversi tra le lingue si fa pericoloso? La versione messicana di Sesame Street, Plaza Sésamo, cambiò il giallo di Big Bird nel verde di Serapio (poi Abelardo) Montoya. Del resto, inventare è un casino – specie se allo stesso tempo stai traducendo: impossibile evitare qualche sbavatura, qualche scarto.

E tuttavia: inventare significa anche che in realtà nulla è nuovo tranne ciò in cui decidi di credere: che la sospensione dell’incredulità è il trucco di coloro che si chiamano alchimisti (e accademici, e imprenditori); che inventare offre scampo dal tempo, dall’esercizio di trasformare il tempo in una casa che ti sta stretta se cresci troppo e da cui devi infine congedarti per costruirne una seconda, anche solo per non dimenticare. Inventare è una strana tradizione amorosa. Puoi eccellere nel suo esercizio se contempli il fatto che l’amore non è bello, simmetrico, levigato, perfettamente a fuoco e ben ritmato, che non ha niente a che vedere con la forma, che ha più a che fare con l’incertezza che col romanticismo. Tutto molto rischioso a dire il vero, e quasi privo di appigli a cui aggrapparti.

Poco dopo la morte di suo padre per un incidente in fabbrica, quando mia sorella doveva ancora compiere un anno, lui usò il suo passaporto americano (era nato a Chicago, ma a dodici anni si era trasferito a Guadalajara) per trasferirsi di nuovo a Chicago. Poco prima di assoldare un trafficante di persone alla frontiera, lei ricevette la telefonata che le confermava di poterlo seguire: i documenti per la cittadinanza erano pronti.

Smemorati emisferi

Le storie di migranti cominciano con delle coordinate su una mappa e un cambio di panorama, un senso di spaesamento attraverso tempo e spazio, la protagonista in cammino lungo la traiettoria che congiunge il qui al laggiù.

Che ne sarebbe della cinematografia, senza migranti e migrazioni? Il qui (il mio qui) è uno smemorato emisfero sotto attacco, generato da derive, flussi e inondazioni globali, e ancora immerso in essi. La mia protagonista è in visibilio, in attesa, ansiosa e nervosa. Ha con sé un gomitolo di effetti personali, alcune fotografie della sua gente – gente che le mancherà, ma che spesso ha mancato di capirla. Si aspetta una versione qualunque dell’inaspettato. Incontrerà qualche difficoltà, e una trasformazione. In ogni caso, se è in America che va, sarà infine l’America a guadagnarci davvero: o perché otterrà una nuova figlia devota o perché si rivelerà troppo possente per essere espugnata.

Il mio qui è uno smemorato emisfero sotto attacco che si congiunge all’altro, anch’esso smemorato, anch’esso sotto attacco. In entrambi, le genti danzano.

Discendo da secoli di migranti senza riposo, alcuni dei quali erano assassini (ne troverai qualcuno in qualsiasi albero genealogico, basta risalirne i rami abbastanza in alto) e altri avventurieri e vagabondi, tra cui coloro che rimasero impigliati nelle correnti globali del capitale che fluivano verso il Messico lasciandoli affamati. Di questi, alcuni covavano tenere aspirazioni, altri finivano in prigione per esser stati posseduti e aver preso possesso della più antica forma di libertà, della più antica forma di sopravvivenza: lasciare un luogo in cerca di un altro luogo. Altri ancora erano preti, e santi.

Questo non è un romanzo storico, un romanzo d’amore in cui, leggendo, puoi aspettarti un matrimonio dopo inevitabili separazioni; un romanzo in cui potrei offrirti l’opportunità di gettare uno sguardo in una vita che non ti è familiare, come se tu fossi in vacanza e io una guida turistica. Se questo è un romanzo, si tratta di una di quelle storie imperfette (talvolta banalmente sbagliate) che possono servirti per rimanere a galla tra un posto e un altro: non per arrivare a destinazione, ma almeno per attraversare un emisfero smemorato e raggiungerne un altro per via d’acqua, e d’atmosfera.

Courtesy of Duke University Press. Traduzione a cura di Alessandro Giammei.


Monica Huerta è autrice del libro Magical Habits, edito da Duke University Press

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