Nella basilica di Santiago de Compostela, le norme sanitarie post-pandemia hanno cancellato la climax del pellegrinaggio per eccellenza: lo spettacolo liturgico del botafumeiro, il più grande incensiere del mondo, coi suoi 53 chili sospesi a venti metri d’altezza.

La storia del suo utilizzo risale a un fine meramente pratico: l’odore dell’incenso avrebbe coperto la puzza dei pellegrini, molto diversi dai fisicati in backpack di oggi. Eppure, basta questo per evocare un aspetto dell’utilizzo dell’incensiere, che è implicito: l’orizzontalità tribale del contesto.

La chiesa cattolica fa uso dell’incenso – la resina fatta bruciare lentamente nel cosiddetto turibolo – nelle cerimonie liturgiche solenni, di norma sempre affollate. È un elemento di aggregazione attorno a un’unica divinità, da quelle pagane al dio d’Israele. La connessione messa in scena è duplice, perché l’appartenenza a una tribù orante trova il suo senso nella relazione verticale con Dio, il vero destinatario del sacro fumo. Le mucose nasali e, di riflesso, i recettori neuronali, recepiscono le molecole chimiche che, a un occhio mistico, sono ascissa e ordinata di quello che Dante definirebbe trasumanar.

Fuoco inespresso

Dentro il turibolo, l’incenso brucia grazie alla combustione di un carbone, che non ha bisogno di bruciare ma rimane invece perennemente scintilla: quello che avviene nel ventre metallico è, quindi, un fuoco abortito, che il turibolo stesso argina. Si evita la forza distruttiva della fiamma, che l’immaginario ha lasciato immutata – dagli stilnovisti ingrifati alla pazza regina Targaryen –, perché l’elevarsi a Dio deve essere contenuto entro limiti.

Nella Sacra Scrittura, in realtà, è il fuoco stesso a rappresentare l’onnipotenza distruttiva di Dio davanti al popolo della tribù di Israele: l’immagine più affine al roveto ardente davanti a Mosè è quella del nucleo in continua reazione nucleare nella centrale sventrata di Chernobyl nel 1986, fuoco che brucia l’energia che esso stesso produce: «Tu gli dirai: fa attenzione e sta tranquillo, non temere e il tuo cuore non si abbatta per quei due avanzi di tizzoni fumosi», Dio apostrofa davanti a Isaia gli Aramei.

Scelto come portavoce di Dio, al profeta Isaia viene “purificata” la bocca con un carbone ardente maneggiato da un angelo serafino (il cui significato è “infuocato”). Il fuoco sta a Dio come il carbone ardente all’uomo. Cos’è, quindi, il turibolo se non una metafora dell’uomo, il cui destino può essere girato e rigirato dallo stesso cielo?

Nel maschio ventre

Nella liturgia, il turibolo è un oggetto solenne, eppure l’unico che, a differenza dei pochi ammessi sull’altare, passa di mano in mano, con un utilizzo che muta a seconda di chi lo maneggia. Chi lo accende, lo dondola perché il tizzone rimanga acceso, il lettore lo oscilla sul Vangelo, il sacerdote solo può dondolarlo sulla bara o davanti all’Eucarestia. E così, all’interno di quella grande tribù maschile che è il sacerdozio, non basta toccare l’oggetto, ma bisogna avere licenza del suo utilizzo.

Il turibolo decreta quanto essere maschi nell’ascesa gerarchica, ed essere maschio nella chiesa cattolica significa avere potere sugli altri: un prelato novantenne potrà fare dieci passi rispetto a un prestante seminarista – magari maratoneta, come va di moda fra i gesuiti statunitensi. Eppure il primo potrà maneggiare l’incensiere in un modo precluso al secondo. It’s liturgia, baby!

Quando a giugno scorso, il cardinale tedesco Reinhard Marx ha presentato le sue dimissioni a papa Francesco, ha menzionato il carattere sistemico del potere ecclesiale, quello che i francesi, avvezzi al binomio chiesa/potere, hanno bollato con il nome di “clericalismo”. Se c’è un oggetto che lo rappresenta in toto, questo è proprio il turibolo.

Ascissa e ordinata

Ma poiché nella sineddoche della liturgia gli oggetti indicano una parte per il tutto, questo tutto è il nume, la cui presenza ubiqua trova una traduzione fisica nel fumo dell’incenso: le sue molecole occupano tutto fisicamente, anche le reti neuronali, eppure restano evanescenti, inafferrabili.

Il Dio d’Israele è l’anti-materia e l’onni-presenza: per questo le metafore ricorrenti, nell’Esodo come nei Salmi, sono il vento, il fuoco, il fumo. Il Dio ebraico nega una relazione materica con l’uomo, pur stimolandogli sensi, come l’olfatto. Nulla di più distante dallo Zeus sotto forma di nuvola, che si trasforma in pioggia per ingravidare Danae.

Dio lo si sente, ma non lo si tocca, come il fumo dell’incenso. Solo il ministrante, che maneggia l’incensiere in vari modi, può farsi interprete di questa relazione verticale e mutarla in un linguaggio orizzontale. Se vorrà farlo. Decenni di abusi, di potere e di coscienza, portano a pensare che verticalità genera verticalità.

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