Ormai è tutto talmente un giorno della marmotta che il minimo evento diverso dal solito mi sembra degno di essere riconosciuto e registrato, anche quando non lo è, anche quando “evento” è un termine evidentemente troppo generoso per descrivere la variazione microscopica che si consuma in una delle mie giornate tutte uguali, passate nel solco a forma di culo che ho impresso sul cuscino del divano nell’ultimo anno. Quindi, consapevole di questo, chiedo scusa in anticipo per l’aneddoto che sto per raccontare, che non è un evento. Forse non è neanche un aneddoto. La settimana scorsa sono stata tormentata da un insopportabile prurito alla faccia. È iniziato con un leggero fastidio sul lato del naso, come un capello fuori posto, come quando il parrucchiere ti taglia la frangia e tu hai le braccia bloccate sotto la cappa di Darth Vader e vorresti grattarti furiosamente. Poi si è aggiunto un prurito in un punto specifico dello zigomo sinistro e un altro un po’ più su, appena sotto il sopracciglio. Nel giro di poche ore ero esasperata, in testa mi si avvicendavano flashback da stress post-traumatico della me quattrenne, coperta di bolle e talco mentolato durante la grande varicella del ’96.

Solo che stavolta non c’erano segni, neanche un puntino. Mentre facevo impacchi lenitivi di qualsiasi cosa, peggiorando di molto la situazione, le ipotesi plausibili (nella mia mente annebbiata dal prurito e dalla frustrazione) erano soltanto due. La prima ovviamente non poteva che essere: eccallà, mi sono presa la variante bulgara, una variante del virus ancora sconosciuta agli scienziati ma non meno letale di quelle già note, che non attacca le vie respiratorie ma si insinua sotto la pelle, portando le sue vittime a pugnalarsi la faccia.

La seconda ipotesi era l’esaurimento nervoso imminente. Prima arrivano gli sfoghi invisibili, poi le voci nella testa. Quante volte ci siamo trovati a parlare da soli negli ultimi mesi?

Algoritmo non mente

Faccio sempre fatica a rilevare il mio livello di stress. La mia personalità oscilla tra due estremi: più rilassata di così dovrei essere morta, oppure sono un fascio di nervi. In questo caso stavo cercando di scavare un buco tra il naso e l’occhio sinistro e dormivo male da qualche giorno. Instagram, che ormai mi conosce meglio di mia madre (nonostante ogni tanto io cerchi di depistare l’algoritmo googlando colle per il legno e vernici per sanitari), ha prontamente iniziato a spammare sul mio feed la sponsorizzazione di Calm, un’app per il rilassamento che si avvale di voci famose: Laura Dern ti legge una favola, Harry Styles ti canta una ninna nanna, cose così.

Pur consapevole di aver già scaricato da tempo l’app di Headspace (altra celebre app per la mindfullness che di recente è approdata anche su Netflix con le sue guide per la meditazione), pur consapevole di non averla mai aperta, vengo convinta dal tono suadente di Idris Elba, che potrebbe persuadermi di qualsiasi cosa, e scarico anche Calm.

L’app mi accoglie con il pacifico rumore di una cascatella, che mi fa immediatamente venire voglia di andare in bagno. Tra le infinite gabbie mentali che mi sono creata c’è quella dell’idratazione e all’inizio avevo un’app anche per questo, che mi ricordava di bere più volte al giorno, ma nel frattempo sono diventata autonoma e ormai bevo così tanta acqua che ovunque vada devo individuare il bagno nei primi cinque minuti di permanenza. È forse questa l’età adulta? Dopo la pausa pipì, Calm mi chiede con quale scopo ho scaricato l’applicazione, ma siccome non trovo la voce “prurito infernale alla faccia” seleziono tutte le opzioni: migliorare le tue prestazioni, sviluppare la gratitudine, aumentare la felicità, dormire meglio, ridurre l’ansia, costruire l’autostima, ridurre lo stress (che avrei giurato fosse sinonimo di “ridurre l’ansia” e invece a quanto pare no). Tutte belle cose di cui improvvisamente sento di non poter fare a meno.

Fiori di Bach

Nel buio della camera da letto, quella sera, vado a colpo sicuro sull’uomo per cui sono qui, Idris Elba, che legge una storia africana e non una storia di spaccio a Baltimora, come invece mi sarei aspettata. Con un timbro profondo e un accento britannico che più che calmarmi risvegliano molteplici fantasie sessuali, Idris Elba introduce il racconto dicendo che questo prodotto è realizzato con la collaborazione di Red, organizzazione impegnata nella battaglia contro l’Aids.

A quel punto non riesco a pensare ad altro che a quella volta che mia madre pestò una siringa in spiaggia a Focene (dalle parti di Amore tossico, per capirci) e mio padre mi spiegò cos’era l’Aids e perché dovevamo accompagnare la mamma all’ospedale, nello stesso giorno in cui Lady Diana moriva a Parigi. Credo sia stata la prima volta in cui ho pensato alla morte. Avevo cinque anni.

Mi rendo conto che Idris Elba non sta funzionando. Ora sono più sveglia di prima e se chiudo gli occhi vedo Vincenzo Muccioli. Passo a Matthew McConaughey che parla dell’universo. Appena apre bocca per dire «Well, hello there», con quell’accento del sud che ormai è stato imitato da chiunque, mi scappa da ridere. Nei minuti successivi inizia a fare namedropping, dicendo che ha passato del tempo con Stephen Hawking, e si lancia in un discorso sulla meraviglia dello spazio e dell’infinito che lo colloca a metà tra l’amico strafatto che nessuno ha voglia di ascoltare e la zia pazza appena tornata dall’India che nessuno ha voglia di ascoltare. Ricevuta conferma della ridicolaggine di McConaughey, smetto di ascoltarlo e decido di addormentarmi con il mio solito metodo: enne gocce di fiori di Bach, la cui efficacia è rappresentata esclusivamente dalla componente alcolica. Se se ne prendono abbastanza è come farsi un drink, ma il contagocce rende l’operazione a letto meno riprovevole. La mattina dopo mi sveglio stanca e con la bocca asciutta per colpa dell’alcol nel Rescue Remedy, quindi bevo immediatamente due litri d’acqua che è più o meno il dieci per cento del mio attuale fabbisogno quotidiano. Il prurito alla faccia è ancora forsennato e mentre medito di scendere in cortile a raccogliere una manciata di ghiaia da strofinarmi ovunque, immagino che se non avessi mai fumato una sigaretta in vita mia questo sarebbe un buon momento per cominciare. Poi mi ricordo di Calm e decido di dargli un’altra chance.

Mi siedo a gambe incrociate nel solco a forma di culo e seleziono una traccia che si chiama Sigur Rós Sound Bath che anche se vuol dire “bagno di suono” mi fa pensare al bagno e mi ricorda che devo fare pipì. Intanto una signorina nelle mie orecchie sta elencando lentamente le parti del corpo che devo rilassare, senza nessuna menzione della vescica.

Il “bagno di suono” mi ricorda anche quanto mi piacerebbe fare un bagno caldo, che invece non faccio perché la mia vasca è così vecchia che mi sarebbe impossibile immergermici serenamente, senza pensare con angoscia alla gran quantità di genitali di inquilini precedenti che vi sono stati a mollo nei decenni trascorsi.

Meditare è faticoso

Il successivo nesso avviene inaspettatamente tra la vasca da bagno e i Sigur Rós, che mi riportano alla scena iniziale di Pieces of a Woman, uscito da poco su Netflix, i cui primi venti minuti battono per tensione quelli di Salvate il soldato Ryan.

Il film infatti inizia con un parto in casa e se siete al nono mese di gravidanza sconsiglio la visione perché potrebbe farvi cambiare idea su quello che state facendo. A un certo punto, tra una contrazione e un conato di vomito, la protagonista si immerge in una vasca da bagno, per un’esperienza tutt’altro che riposante. Per rendere il momento meno Alien, c’è una canzone dei Sigur Rós.

Così ora, invece di rilassarmi, sto immaginando l’esperienza del parto e mi sto interrogando sulla mia soglia del dolore, che sospetto essere piuttosto bassa, visto che mi basta un prurito alla faccia per volare sul nido del cuculo.

«Meditare è un allenamento» dice alla fine la signorina soporifera di Calm. Pare sia normale distrarsi all’inizio, pensare ad altro, indugiare su pensieri sbagliati. Ci vuole molta pratica anche per non fare niente. Pensavo di essere bravissima in questo, il mio contapassi presto mi chiederà se sono ancora viva. Ma concentrarsi sul proprio benessere è qualcosa di diverso, di attivo, che come qualsiasi tipo di sforzo mi trovo riluttante ad affrontare. Forse è meglio così. Se pensassi a me stessa più di quanto già non faccia rischierei di implodere, di collassare su di me come una supernova o qualche altro tipo di stella di cui forse Matthew McConaughey avrebbe potuto insegnarmi qualcosa. Ma purtroppo non lo sapremo mai.

© Riproduzione riservata