La scuola è stata, ed è, uno snodo cruciale nella confusa e maldestra gestione di quest’anno pandemico. Con discutibile tempismo, la scorsa settimana è partita su Italia1 la nuova serie di La pupa e il secchione, triste parodia di studio e interrogazioni. All’estremità opposta dell’impegno, due dei romanzi di maggior successo usciti nella seconda parte del 2020 sono di ambiente scolastico: Lezioni di volo e di atterraggio di Roberto Vecchioni (Einaudi) e L’appello di Alessandro D’Avenia (Mondadori). Molto diversi tra loro, ma convergenti nell’opporsi al modello tradizionale di scuola e di programmi ministeriali: più che trasmissione di nozioni, passaggio d’anima tra professore e allievi, il liceo come scuola di vita, non a caso durano entrambi il tempo di una ‘maturità’.

Una professione di fede

Il più anziano dei due, Vecchioni, punta sulla simpatia del proprio alter-ego: un professore anarchico e vitalissimo che fa lezione all’aperto, al parco Sempione di Milano, e trascina i suoi studenti in cavalcate di follia. Il narcisismo del professore protagonista si manifesta (appunto, simpaticamente) per understatement, così per esempio gli studenti parlano di lui e alludono a Samarcanda: «Aveva la mania di scrivere canzoni… se l’era tirata da intellettuale… voleva parlare dell’ineluttabilità del destino, ma la presero tutti come una filastrocca per bambini».

Essendo un esperto di ritmo, insiste molto sulla metrica, soprattutto latina, esemplificandola sui moderni cantautori; non contento, porta gli studenti in un vecchio ‘trani’ milanese e imposta per loro e per i due proprietari del locale una lezione di linguistica comparata, con tanto di etimologie e radici sanscrite.

L’assunto principale del libro è dimostrare che la cultura può essere divertente, che ci si può giocare, e che l’antichità classica è più attuale che mai perché i miti si ripresentano continuamente. Esagera pretendendo di giocare anche col lettore, e qui vien fuori il Vecchioni enigmista: i cognomi dei ragazzi sono quelli di pittori famosi, e sta al lettore scoprirli per mezzo d’indizi: Bencivieni, cioè Cimabue, «manca totalmente di prospettiva»; Zorzi, cioè Giorgione, «è un patito del Bellini», nel senso della Norma non del suo maestro Giovanni, e via così goliardando. Si proclama d’accordo con chi dice che «l’arte in certi periodi non può essere un oggetto di lusso», ma in realtà per scoprire tutte le allusioni culturali sparse nel libro bisogna appartenere a una élite.

Più che un incitamento alla riforma della scuola, il libro è un elogio della sinistra libertaria, eretica, più artistica che scientifica, femminista con tutte le carte in regola (da Frida Kahlo ad Alda Merini), ammiratrice della semplicità popolare; è una ininterrotta professione di fede nel vero, nel bello e nel giusto assoluti, strumenti necessari per amare la vita a ogni costo. Vuol essere una iniezione di entusiasmo, di ottimismo resiliente; e non importa se così facendo si finisce per occultare il lato tragico della cultura stessa, le sue contraddizioni inconciliabili, l’ombra dell’oppressione.

Il campionario di sfighe

Sulla riforma, anzi, sulla rivoluzione della scuola, è invece centrato il romanzo di D’Avenia; l’insegnante di scienze protagonista è cieco e si chiama nientemeno che Omero. È un cieco veggente, gli assegnano quasi per sfida la classe più difficile dell’istituto: dieci ragazzi e ragazze pluriripetenti, dropout, che terrorizzano gli altri insegnanti, i rifiuti delle altre classi, una masnada raccogliticcia che però (per scelta dell’autore) si rivela il frutto di un casting oculatissimo, un campionario di tutte le sfighe che possono colpire la gioventù: droga, anoressia, body shaming, gravidanza precoce, lavoro minorile, madre prostituta, abuso infantile. Tutti temi trendy.

Omero è solo nella propria battaglia, i suoi colleghi sono ormai rassegnati all’andazzo di una scuola che «ha tradito la sua vocazione e si è appiattita sui desideri del nostro tempo»; la sua unica aiutante, all’inizio, è una bidella laureata in letteratura russa che parla come un’intellettuale.

Essendo cieco, Omero ha bisogno di conoscere gli allievi passando (vien da dire ‘imponendo’) le mani sul loro volto, in un’anomala e rituale forma di appello; la cosa viene ritenuta scandalosa dal preside e anche la insegnante di lettere rifugge da un contatto così carnale e intimo, fin che si verrà a sapere che la sua freddezza e il suo distacco sono la conseguenza della perdita di un figlio, e in un solo colloquio la professoressa si troverà a singhiozzare tra le braccia di Omero, definitivamente convertita.

La rapidità dei mutamenti dipende dal carisma di Omero, che prende le scienze, soprattutto l’astrofisica, a pretesto per lezioni sull’armonia delle sfere e sull’amore universale (lui si definisce «appassionato del cosmo e di Dio»); la sua spinta pedagogica è incontenibile, tanto che a un certo punto il preside esplode, «Non è necessario far lezione a tutti ogni volta che apre bocca».

Ma il preside è battuto dai fatti: l’effetto che hanno le lezioni di Omero sui dieci allievi è magico, spettacolare, ognuno di loro sviluppa al massimo le proprie potenzialità, quando sono loro a parlare in prima persona lo fanno con una profondità e una proprietà di linguaggio che rende poco credibile la loro precedente emarginazione.

In pochi mesi la piccola rivoluzione cominciata in classe si allarga all’intero istituto, poi assurge a movimento studentesco nazionale; i ragazzi vanno in tivù, trattano alla pari col ministro della pubblica Istruzione, il loro Manifesto per la rivoluzione scolastica è all’origine di discussioni in tutto il mondo.

Lo stile esibizionista

I dieci ragazzi ex dropout sono paragonati alla Rosa bianca, il gruppo di giovani che cercarono di resistere a Hitler. In una escalation irresistibile, la didattica oltrepassa la realtà e raggiunge culmini di infantile antropocentrismo: «L’universo è una coreografia e noi siamo stati creati per goderci lo spettacolo». Progressione onirica, che trasuda fiducia nella parola e viene rispecchiata da uno stile che dire esibizionista è dire poco: «La forza di gravità l’ha richiamata con violenza sulle scale di casa a motivo dell’attrito esercitato sul suo piede dall’unico affetto che le era rimasto, un gatto raccolto per strada» (è una donna che ruzzola e si rompe una gamba); «Ero un pavimento su cui la vita, il cielo e il dolore consumavano il loro baccanale»; «La città, sotto di me, arrancava più del solito per annottare»; «Richiama all’ordine l’entropia esistenziale, più che mai fervida dopo la pausa estiva» (è solo il campanello che suona mentre i ragazzi fanno casino). Un barocco che avrebbe spaventato il povero Gadda, così poco incline alle rivoluzioni; e ancora, «Il dolore è come un termometro: misura l’amore» (qui da Gadda si precipita verso i Baci Perugina).

I miracoli non esistono

Mi sono rinfrancato con un libro uscito una decina d’anni fa, rintracciandolo nello scaffale dei Sellerio blu: si intitola Insegnare al principe di Danimarca e l’ha scritto Carla Melazzini, una valtellinese che aveva seguito il compagno, poi marito, Cesare Moreno a Napoli, dove entrambi hanno lavorato a lungo come maestri di strada. Il libro è una protesta contro l’idea di «onnipotenza pedagogica», cioè che «basti insegnare in modo efficace e tutto si risolve»; a maggior ragione, è un libro contro qualunque miracolismo: «ci sono voluti anni per abbandonare ogni illusione di salvare, cambiare destini».

I suoi ragazzi sono esclusi veri, che parlano usando un sistematico turpiloquio, pensano che l’italiano sia «’a lingua d’e’sciemi», portano le armi in sede. Il tutto raccontato con grande pudore stilistico, nemico dei fuochi d’artificio e degli stereotipi.

È inutile, e forse in questo momento particolare perfino dannoso, tradurre una utopia politica in pura effervescenza letteraria, o in un amore conclamato per i classici, se poi alle asperità e alle impotenze della letteratura si voltano le spalle.

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