C’era una volta la fiaba. E verrebbe anche da aggiungere «tanto tempo fa, in un regno lontano lontano», visto che ormai sta rimanendo molto poco dei grandi classici d’animazione per bambini. Basti pensare a quanti punti simpatia ha perso la Bella Addormentata dopo la saga con Angelina Jolie dedicata a Malefica, il cui fenomeno verrà a breve replicato da Crudelia De Mon (il film Cruella in live action che la vede protagonista è atteso a maggio). Il mondo delle fiabe sta cambiando in nome di una maggiore inclusività, della parità dei diritti e della body positivity. Tradotto: si cerca di rappresentare tutti, e non più solo i maschi bianchi americani, di dare visibilità alle donne (promuovendo anche le “ragazze cattive”) e di evitare l’eccessiva sessualizzazione dei corpi. Il che, di per sé, non è sbagliato. Tra l’altro il linguaggio cinematografico è sempre stato in evoluzione, garantendo un efficace gioco di specchi tra realtà e finzione, soprattutto se si tratta di contenuti per bambini.

L’archetipo puro

Andate a vedere una puntata della storica serie tv I Puffi, trasmessa negli anni 80, e confrontatela con l’adrenalinico film I Puffi, rilasciato nel 2011: ritmo, musica e temi sono diversissimi, a riprova che il mondo è cambiato e, con esso, anche il pubblico e il linguaggio cinematografico. «Le fiabe classiche si basano sull’archetipo puro: per questo se la strega è cattiva, è assolutamente malvagia, o se l’eroe nasce tra gli stenti, viene ritratto davvero poverissimo. L’archetipo parla infatti dell’ego, ossia mette in scena alcuni pezzi della nostra vita interiore più profonda», dice Viola Picariello, psicomotricista ed esperta in educazione infantile, «ora si sta cercando di andare verso una narrazione più sfumata che, oltre all’ego, includa anche l’esperienza e la realtà esterna. È un’apertura che condivido, a patto che venga fatta in maniera sensata e ragionata».

Spinta dal buon proposito di rimodellare l’immaginario di giovani e giovanissimi, Hollywood sembra procedere soprattutto per provocazioni: una strategia che viene spesso utilizzata nei periodi di transizione, dove le persone sono chiamate ad abbandonare una mentalità manichea (bianco/nero) per abbracciare una visione del mondo inedita e più sfaccettata. Tale passaggio viene effettuato a “ondate”, sospinti per l’appunto da proteste e provocazioni sociali. L’idea di affidare nel nuovo Pinocchio il ruolo della fata turchina all’attrice di colore Cynthia Erivo va chiaramente in questa direzione. Peccato che, di azzardo in azzardo, la situazione stia sfuggendo un po’ di mano lasciando spazio alla cosiddetta cancel culture.

Cancellare, cancellare, cancellare 

La Disney, per esempio, ha deciso di vietare ai minori di 7 anni la visione di alcuni grandi classici disponibili sulla propria piattaforma streaming, come Gli Aristogatti, Peter Pan e Dumbo, che «offendono culture, trasmettono stereotipi, contengono messaggi dannosi per la comunità». O ancora, nel film Space Jam – A new legacy non c’è più traccia della puzzola Pepè perché, con le sue continue avance, l’animaletto inciterebbe alle molestie sessuali. Si starebbe insomma procedendo per «eliminazioni e semplificazioni, rinunciando di fatto al dibattito costruttivo», come sottolinea Alessandra De Tommasi, esperta di tv e autrice del blog AirQuotes.it. «A mio avviso la cancel culture non arricchisce il bagaglio culturale delle nuove generazioni, semmai lo impoverisce poiché elimina qualsivoglia spunto di discussione». Se infatti i contenuti sono sempre filtrati o innocui non ci sarà mai spazio per reazioni critiche, che spingano i giovani al confronto e alla riflessione personale.

Le stesse bad girl disneyane, come Malefica, sembrano nate più per riequilibrare i conti con il dilagante eroismo al maschile, che non per raccontare le sfumature del cuore umano. Alla fine della saga di Maleficent, la Jolie fa infatti quasi simpatia e le sue azioni vengono edulcorate della loro stessa malvagità, per non dire giustificate. «Agire per semplificazione vuol dire togliere ai bambini e ai ragazzi gli strumenti per leggere il mondo in modo critico e dinamico, riservando loro una visione liofilizzata di quanto li circonda», continua De Tommasi. Il sospetto è che si voglia rinunciare a priori a discutere, per esempio, del razzismo perché, semplicemente, la discriminazione razziale non è più un’opzione contemplabile: ergo, non bisogna nemmeno prendere in considerazione il tema. Lo stesso vale per il bullismo o la discriminazione nei riguardi delle donne, degli omosessuali e di qualsivoglia categoria.

Peccato che, una volta spenta la tv o usciti fuori dal cinema, il sessismo come il razzismo o il bullismo fanno ancora parte di questo mondo. Possiamo non parlarne, ma esistono. «Purtroppo, per cambiare la realtà non basta partire dall’idea che ci siamo fatti su questa», spiega Picariello, «Prima infatti si fa esperienza di qualcosa e poi, in seconda battuta, si sviluppa un concetto. Il cambiamento evolutivo è dunque un percorso a tappe, collettivo, che parte dal basso ossia dalla realtà e dal coinvolgimento di tutta la comunità sociale. E questo vale soprattutto se ci rivolgiamo ai bambini che imparano in primis dall’esempio degli adulti. Banalmente, in un film possiamo anche avere un cast tutto di attori bianchi, o neri, o metà nero o metà bianco, ma se poi a scuola si fanno discriminazioni o la mamma non vuole che il figlio giochi con il compagno extracomunitario, siamo al punto di partenza».

Negli occhi di chi guarda

Tra l’altro spesso il politicamente scorretto è solo negli occhi di chi guarda: se si fosse davvero liberi, una strega cattiva verrebbe percepita cattiva per il suo comportamento nella storia e non cattiva in quanto donna, lesbica o nera. La discriminazione sarebbe una associazione mentale ex post, anziché ex ante, tanto più che veniamo da una lunga tradizione fiabesca dove i personaggi compiono gli atti più raccapriccianti: dallo sciogliere i propri figli nel calderone ad amputarsi le dita dei piedi per calzare una scarpetta. E ancora, se i disabili si sentissero veramente integrati nella società, forse non avrebbero protestato per il film Le streghe di Robert Zemeckis (2020), lamentando che i mostri hanno sempre corpi mutilati o deformi. L’immaginario va (e deve andare) dunque a braccetto con l’esperienza, in una virtuosa sinergia, come ribadisce anche De Tommasi: «Esiste un motivo se il mondo ricorda gli orrori commessi. La Giornata della memoria, ad esempio, non è certo la celebrazione, ma il monito a non ripeterli. Ecco perché ogni processo di livellamento, semplificazione o censura che parta dai racconti per i più piccoli rischia di danneggiarli fin da subito, rendendoli incapaci di affrontare un mondo che hanno conosciuto solo in maniera bidimensionale, edulcorata e priva dei conflitti che portano al cambiamento».

E qui si innesta l’altro grande tema: la rappresentazione del corpo femminile, sul quale si incrociano almeno due istanze. La prima è quella, squisitamente femminista, di affrancare la figura delle donne dall’oggettivizzazione e dalla cultura maschilista, mentre la seconda istanza guarda alla body positivity: si cerca di non promuovere modelli fisici perfetti per aiutare i ragazzi ad accettarsi e a volersi bene così come sono. Due propositi corretti che ancora una volta, se applicati alla cieca, rischiano di risultare estremi. Per esempio, nel già citato sequel di Space Jam, si è deciso di cambiare le forme alla coniglietta Lola per timore di offrire l’ennesimo modello inarrivabile in stile Barbie, in questo caso per giunta sessualizzato. Così, di colpo, la coniglietta ha perso tre taglie di reggiseno e i fianchi curvilinei, per essere disegnata in una versione decisamente asessuata e puerile.

«L’adolescenza è l’età della erotizzazione dove ognuno di noi cerca di abbellirsi, mostrarsi, essere seducente. Quindi, se voglio raccontare una storia sugli amori adolescenziali o su questa età, mi serve avere un personaggio come la coniglietta Lola, per dare vita a un processo sia di identificazione che di riflessione», commenta Picariello, «se invece la storia è meramente sportiva, beh, allora bisogna domandarsi quale sia l’utilità di un personaggio del genere. Bisogna insomma ragionare caso per caso senza dimenticarsi che, nel mondo, le differenze e i soprusi esistono: tanto vale parlarne e rappresentarli, pur in una chiave sempre di rispetto e decoro». Quanto alla body positivity, la rivisitazone di Lola non spezza una lancia in favore dell’inclusione, anzi. «La body positivity non passa per t-shirt più lunghe o meno attillate, né per divise unisex», conferma De Tommasi, che da anni è in prima linea su questi temi, «è un processo di accettazione che valorizza ogni corpo. Nasconderlo, camuffarlo, fino a mimetizzarlo non fa altro che accentuare un processo di omologazione». Il nuovo mondo delle favole appare insomma più insidioso del previsto.

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