«Io non ho nessun diritto di perdonare mio figlio. Questo diritto spetta semmai ai parenti delle vittime», dice Valeria Collina.

«Mio figlio», Youssef Zaghba, è noto alle cronache di tutto il mondo come membro di un commando jihadista. Le vittime sono quelle dell’attentato di Londra del 2017. Il figlio di Collina era uno degli attentatori del London Bridge: «Lui e altri due, muniti di coltelli, hanno ucciso otto persone, prima che la polizia uccidesse loro». Quando il figlio è un terrorista, chi è la madre? È la domanda che orienta tutto il docufilm After the Bridge dei registi Davide Rizzo e Marzia Toscano.

«Per me il film è stato un percorso di autocoscienza», dice Valeria Collina, che ne è protagonista e centro gravitazionale: anche le riprese del paesaggio non sono che una proiezione dei suoi stati interiori. Eppure ci dev’essere qualcosa di universale, in questo microcosmo di emozioni femminili: After the Bridge viene trasmesso tanto dalla Rai, questo venerdì 10 novembre alle 23 su Rai 3, quanto su Al Jazeera. Ha vinto il Biografilm Festival 2023 – non un premio solo, ma miglior film, premio del pubblico e premio Ucca – e passa nei festival di mezzo mondo.

«C’è una contraddizione interiore che il film deve districare: da una parte la netta presa di distanza ideologica dal figlio, dall’altra il fatto che è appunto un figlio», dice la regista Toscano. La protagonista nasce a Bologna da padre partigiano, si forma nell’attivismo sessantottino, poi cambia totalmente vita in Marocco. Quando si separa dal marito e torna in Emilia, e poi quando prende le distanze dal figlio terrorista, Collina attraversa una perdita dietro l’altra; ma nel contempo ritrova se stessa.

Il film – come lo definisce lei stessa – è un «percorso di autocoscienza» e di emancipazione; non solo lo racconta in immagini, ma lo porta a compimento nella messa in scena.

Le immagini ritrovate

«Questa storia ci è venuta incontro per un caso incredibile della vita», dice il regista Rizzo. Oltre alla storia nel film, c’è la storia del film, e nasce non da un lutto ma da un amore.

Da giovanissima, Valeria Collina era la fidanzata e il grande amore di Mauro Mingardi, un regista bolognese al quale Rizzo e Toscano avevano dedicato la loro prima opera da coppia autoriale, Un western senza cavalli.

Mingardi da cineamatore compie imprese quasi impossibili come girare western nelle periferie bolognesi – i “western senza cavalli” nel quartiere Cirenaica – e il suo talento è talmente apprezzato, anche dai grandi come Rossellini, che gli si presenta l’occasione di andare a Roma a tentare davvero il successo. Ma a volte riuscire spaventa più che fallire, così l’epilogo del western senza cavalli resta bolognese. Il percorso da regista di Mingardi resta sulla soglia di ciò che avrebbe potuto essere.

Ma né Toscano né Rizzo avrebbero mai immaginato che da quel finale incompiuto, dalla storia di Mingardi, sarebbe nato un altro film. «Quattro anni prima dell’attentato di Londra avevamo cercato Valeria: era stata il primo amore di Mingardi, e avremmo voluto conoscerla. Ma non ci siamo riusciti», racconta Rizzo. La lavorazione di Un western senza cavalli si conclude prima dei fatti di Londra; il film esce nelle sale nel 2017, dopodiché in quello stesso anno le notizie dell’attentato, il nome di Youssef e quello di Valeria colpiscono l’attenzione dei due registi.

«Abbiamo saputo che Valeria era tornata a vivere in Italia, e all’inizio del 2018 siamo riusciti finalmente a parlarle». Prima parlare. Poi parlare, registrare le conversazioni, prendere appunti. Poi studiare le immagini, «noi tre e la telecamera», dice Toscano. «Solo nel 2019 abbiamo iniziato le riprese vere e proprie, con la troupe». Ma a far sì che davvero la protagonista si aprisse «con fiducia, ha contribuito l’archivio di Mingardi».

Valeria Collina in altalena da ragazza nelle immagini private girate da Mauro Mingardi e confluite nel documentario

Toscano spiega che «Mingardi era follemente innamorato di Valeria; e, oltre a farla recitare nei suoi film, l’aveva ripresa in tutta la sua spensieratezza di ragazza. Abbiamo mostrato a Valeria le pellicole familiari della sua giovinezza». Quel corpus archivistico compare in After the Bridge «come una pausa di punteggiatura»; e può apparire marginale quindi. Ma non lo è affatto: rivedendosi da ragazza – sessantottina militante, libera, piena di passioni – la protagonista Valeria Collina ritrova una parte di sé; e questo è un passaggio chiave nel suo percorso post traumatico.

La via dell’emancipazione

Collina racconta che «è stato incredibile rivedere le immagini del Mingardi». È stato come recuperare memoria di sé, tanto più che «in passato, quando avevo deciso di entrare nell’islam, avevo distrutto ogni immagine che mi raffigurava».

Dopo aver partecipato alle lotte femministe e all’attivismo studentesco di fine anni Sessanta, Collina è così coinvolta nel teatro di Jerzy Grotowski da farne la sua professione; ed è durante la sua attività teatrale che conosce un uomo, con il quale decide di trasferirsi in Marocco. Diventa suo marito, ed è il padre di Youssef. «Capisco che possa sembrare inconcepibile», dice Collina, «che io abbia passato vent’anni in Marocco a volto coperto, uscendo solo se scortata dagli uomini della famiglia. Io sono stata eccessiva in ogni scelta della mia vita: il teatro era una richiesta di assoluto, l’islam era una ricerca di spiritualità».

Come si è spiegata il percorso di radicalizzazione di suo figlio, del quale ha iniziato a prendere coscienza solo quando le è arrivata la notizia dell’attentato? «Nel caso di Youssef non c’era una sofferenza socioeconomica, e la radicalizzazione religiosa in sé non sfocia necessariamente in violenza. A Londra mio figlio aveva amici e un lavoro che gli piaceva. Certamente la motivazione religiosa ha avuto un ruolo, ma la lettura che mi sono data è che l’innesco principale sia stato la violenza alla quale lui ha assistito in famiglia. Da bambino e adolescente, Youssef non ha potuto modificare il rapporto violento che c’era all’interno della famiglia e che ha portato me a separarmi e a tornare in Italia».

Oggi Valeria Collina vive nella casa paterna in Valsamoggia, è tornata alla sua passione teatrale – ha scritto uno spettacolo su islam e femminismo che compare anche nel film – e si è allenata a fare i conti con la vicenda di Londra per «collaborare come posso»: interviene nelle università, nei master sul terrorismo, e in altri momenti pubblici. I giornalisti che avevano assediato la sua abitazione per strapparle una battuta nei giorni dopo l’attentato oggi la intervistano come esperta di terrorismo.

«Mi hanno chiamata anche in queste settimane, dopo che un professore è stato ucciso in Francia e dei tifosi svedesi a Bruxelles». Valeria Collina dice che «è il linguaggio a fare la realtà», e non a caso all’inizio del documentario di Rizzo e Toscano la figura di Youssef è impronunciabile in immagini; l’unica eccezione è per le foto di lui bambino.

Il percorso di elaborazione filmica si conclude con la protagonista che va in Marocco: «Il perdono non avviene, non viene mai dichiarato, ma alla fine del film Valeria va sulla tomba del figlio per dargli una collocazione, per mettere un punto e ricominciare la sua vita», dice Marzia Toscano. La vita ricomincia, dopo il ponte.

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