Di fronte alle imbarazzanti espressioni d’incompetenza ai massimi vertici dell’amministrazione italiana, non ultima quella di un commissario alla sanità a sua insaputa, viene facile invocare la meritocrazia: un mantra che risuona nel dibattito pubblico da anni.

Effettivamente le traiettorie clientelari della nostra classe dirigente non sono il più efficiente dei sistemi di selezione. Eppure a forza di ripeterci quanto la meritocrazia sia buona e quanto la meritocrazia sia bella, talvolta dimentichiamo di chiedere: meritocrazia, come stai?

L’argomento è ricorrente da un paio di anni sulle pagine delle riviste americane più prestigiose, da Bloomberg Businessweek al New York Times. La meritocrazia sarebbe un mito, una trappola, una tirannia, una falsa credenza, una fonte di malessere. E dopo gli articoli, i libri: a settembre è uscito l’ennesimo, di cui si sta discutendo molto, ovvero The Tyranny of Merit: What's Become of the Common Good? del filosofo Michael J. Sandel.

Tra mito e realtà

A onor del vero l’Italia non è stata a guardare. Se si cerca il termine “meritocrazia” in un catalogo digitale, il solo risultato apologetico è un libro di Roger Abravanel, ideologo dietro al Piano nazionale per la qualità e il merito di Mariastella Gelmini e della Fondazione per il merito promossa dal governo Berlusconi. In compenso lo storico Mauro Boarelli aveva scritto un libro Contro l’ideologia del merito, cioè contro l’aziendalizzazione del mondo universitario, in mezzo a tante denunce delle trappole, del feticcio, dell’imbroglio e dei demeriti della meritocrazia.

L’interesse attorno alla questione è proporzionata al suo ruolo fondativo nella “religione civile” democratica e liberale. Caduta l’antica società di rango, nella quale i diritti si ereditavano alla nascita, il merito doveva servire per assegnare a ogni individuo il suo posto nel mondo.

Si trattava anche di un modo per legittimare le ineguaglianze riconducendole alle capacità individuali: insomma se non ce l’hai fatta è colpa tua, noi ti abbiamo dato tutte le possibilità, hai giocato ad armi pari. Al netto delle differenze economiche. Di genere. Culturali. Genetiche. Geografiche. E astrologiche, diciamo, visto quanto conta la fortuna (ne ha scritto l’economista Robert H. Frank nel suo Success and luck. Good Fortune and the Myth of Meritocracy).

Ma visto che la storia la scrivono i vincitori, la prima cosa che scrivono è che hanno vinto perché erano migliori, mentre invece sono soltanto dei sopravvissuti ai propri fallimenti. Privilegio che non è concesso a tutti.

Che ci fosse una differenza tra mito e realtà probabilmente era evidente a tutti, ma finché l’economia cresceva e le opportunità fioccavano, faceva comodo non sollevare il problema. L’alternativa d’altronde quale sarebbe: l’antico regime? il familismo amorale? l’uno vale uno?

Un frutto marcio

Poi ha iniziato a crollare tutto quanto: chi aveva investito enormi cifre per finanziare i propri studi sbarcava in un mercato del lavoro saturo, mentre chi prima guadagnava tanto ha iniziato, beato lui, a guadagnare sempre di più. Che cos’era successo? La meritocrazia si era rotta, o secondo i più pessimisti aveva iniziato a mostrare la sua vera natura: un sistema inegualitario, costoso e spesso inefficace. Per questo l’ondata populista, secondo Sandel, ha individuato proprio nella competenza e nel merito dei nemici da abbattere.

Non abbiamo dovuto attendere il 2020 per iniziare a sospettare che la meritocrazia avesse in sé qualcosa di perverso. Innanzitutto l’inventore del termine, Michael Young, aveva mostrato fin dal 1958 quanto fosse spaventosa l’idea di una società governata da una casta di sapienti, una sorta di oligarchia del capitale cognitivo nella quale i meno istruiti vengono dominati.

Dai tempi di Pierre Bourdieu sappiamo inoltre che il sistema educativo tende a riprodurre, e non a risolvere, le ineguaglianze economiche date in partenza: e chi non si fidasse dei suoi studi precorritori degli anni Settanta, troverà conferma della tesi nella ricca letteratura dell’ultimo decennio.

Ci è stato anche spiegato che la nostra società è basata sui titoli e le credenziali, e che talvolta si concentra più su quei titoli e quelle credenziali che sulle competenze che ci stanno dietro. Al punto che ultimamente alcuni studiosi eretici hanno iniziato a mettere in discussione l’esistenza di un rapporto diretto tra gli investimenti educativi e i benefici per la società.

Infine è da oltre un secolo che marxisti e anarchici, da Marx e Bakunin a Noam Chomsky, denunciano la collusione delle élite intellettuali con il potere, la loro naturale tendenza a smettere di occuparsi degli interessi collettivi per servire esclusivamente i propri. Ideologia. Il frutto della meritocrazia era marcio fin dall’inizio, forse fin da quell’idea – un po’ paternalista – che per avere una cosa te la devi meritare, perché nulla ti verrà dato.

La rivolta dei perdenti

Più di mezzo secolo fa Michael Young annunciava una rivolta dei “perdenti” nel 2034 e invece sembrerebbe che dovrà essere anticipata. Perlomeno è quello che sostiene Sandel in The Tyranny of Merit, prendendo atto della fortissima polarizzazione delle retribuzioni sul mercato del lavoro in funzione delle competenze (confermato recentemente dai dati dell’Employment Outlook 2020 dell’Ocse).

Un altro libro uscito a settembre, Head Hand Heart: The struggle for Dignity and Status in the 21st Century di David Goodhart, sottolinea come la nostra società premia maggiormente le attività cognitive (head) rispetto al lavoro manuale (hand) e di cura (heart); lo stesso autore aveva pochi anni fa popolarizzato l’idea che ci fosse in tutto l’occidente una drammatica spaccatura tra nomadi super istruiti concentrati nelle grandi città (gli Anywheres) e sedentari proletarizzati, ancorati alle loro regioni periferiche desertificate (i Somewheres).

La mappa del voto trumpiano nel 2020 conferma quello che già si era visto sulla mappa del voto sulla Brexit nel 2016, ovvero che a votare contro i valori liberali sono le regioni a bassa densità e a bassa produttività economica.

Anche nelle città e anche tra gli istruiti esistono vittime di questa polarizzazione: l’esercito dei “mediamente competenti” che non potendo ambire alle posizioni migliori temono di scivolare giù fino a quelle peggiori. Colpa vostra, sussurra la voce della meritocrazia. E invece è sempre più palese a tutti che nessuno ha colpe perché nessuno ha mai avuto davvero le stesse possibilità.

I dadi erano truccati. È l’aspetto più inquietante della crisi della meritocrazia: a questo gioco che doveva garantire la mobilità sociale ampie fasce del ceto medio hanno speso cifre importanti e negli Usa addirittura si sono pesantemente indebitate.

Il risultato è una miscela esplosiva di spaccatura sociale, aspirazioni tradite, crisi di legittimazione ed erosione del risparmio privato, un insieme di fattori che non ha mai portato molta fortuna. Da anni il biologo Peter Turchin, prestato allo studio delle dinamiche storiche, non fa che ripetere che la sovrapproduzione delle élite è un’avvisaglia sistematica di tensioni sociali e choc civilizzazionali.

Possibili soluzioni

Fortunatamente, identificare questa crisi ha permesso anche di immaginare delle possibili soluzioni.

Per limitare l’ineguaglianza economica dobbiamo trovare un modo di frenare l’escalation della spesa privata necessaria per accedere al mercato del lavoro, e questo non consiste nel buttare sempre maggiori risorse pubbliche in un pozzo senza fondo, quanto semmai nel mettere un tetto al costo dell’istruzione.

Accettare, insomma, una piccola quota d’incertezza nei processi di selezione.

Ma c’è ancora un’altra ineguaglianza, meno visibile, ed è l’ineguaglianza nella dignità e nel riconoscimento: la rivolta anti meritocratica traduce il malessere di ampie fasce di popolazione che si sentono disprezzate, proprio perché il sistema dice loro che “meritano” meno degli altri.

Bisogna invece restituire dignità ai lavori manuali e di cura, che restano fondamentali in ogni società, e troppo raramente vengono evocati nello storytelling della meritocrazia. Superare, scrive Sandel, la logica del “valore di mercato”.

Questo era anche l’insegnamento del compianto antropologo David Graeber: smettere di dare tanta importanza a certi “lavori del cavolo” associati a elevate competenze cognitive e riconoscere quello che in una società è davvero utile, e spesso passa anche dal cuore e dalle mani.

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