Parecchi anni fa Umberto Eco scrisse un articolo che si intitolava Il Latino come castigo. Il Sessantotto era finito da poco ed Eco ipotizzava che l’ossessione (era lui a definirla così) per l’insegnamento del latino fosse dettata dalla voglia di punire gli studenti che avevano alzato un po’ troppo la testa. Eco aveva esordito come specialista di filosofia medioevale e il latino lo maneggiava senza problemi, ma in quell’articolo arrivava a chiedersi, dato che lui personalmente aveva dovuto faticare per imparare l’inglese da solo (erano anni in cui la maggior parte delle cattedre di lingue straniere a scuola erano ancora di francese) mentre aveva fatto otto anni di latino, se non sarebbe stato meglio il contrario, ossia imparare bene a scuola l’inglese e studiarsi poi il latino per conto proprio.

Altri tempi. Oggi le parti sembrerebbero rovesciate. Ricordate le famigerate tre I di Berlusconi, inglese internet impresa (aveva semplicemente dimenticato la quarta I, l’italiano), che avrebbero dovuto essere i tre pilastri della scuola nuova, orientata verso la produttività?

Apologia delle lingue

A scrivere libri in difesa delle lingue classiche sono invece intellettuali progressisti e a pubblicarli prestigiose case editrici, Laterza e Garzanti. Nicola Gardini, che insegna Letteratura del rinascimento a Oxford ha addirittura scritto una trilogia in lode delle lingue dell’antichità: Viva il Latino (2016); Viva il Greco (2021) e anche un Elogio del Latino distribuito nelle edicole. E se per Gardini il latino è una “lingua da amare”, altro che castigo! per Andrea Marcolongo, che nonostante il nome è una giovane e brillante scrittrice, il greco (naturalmente quello antico) è La lingua geniale, e anche lei presenta la lingua di Omero come oggetto di innamoramento.

Siccome questi libri sono diventati un piccolo genere letterario, e siccome hanno tutti avuto parecchio successo, vale la pena riflettere un poco sulle loro ragioni. Voglio dire: sulle ragioni che adducono in pregio delle lingue classiche, ma anche sulle ragioni che hanno portato a farne, almeno in Italia, dei piccoli bestseller.

L’argomento principe per difendere lo studio delle lingue classiche sembra essere il fatto che esse danno accesso a un patrimonio culturale immenso e dal quale non possiamo prescindere proprio se vogliamo capire la nostra, di cultura. Latino e greco significano letteratura, filosofia, diritto, religione, ma anche architettura (Vitruvio è uno degli autori più influenti nella storia dell’arte). Non a caso la difesa del latino intrapresa da Gardini nel suo primo libro è in realtà una straordinaria passeggiata attraverso la letteratura scritta in quella lingua, da Ennio a Orazio, da Lucrezio a Seneca, molto più avvincente di tanti manuali scolastici.

Da questo punto di vista le motivazioni che sono state addotte di recente per il ridimensionamento dei curricula in latino e greco di alcune università degli Stati Uniti appaiono sorprendenti. Princeton ha ridotto il livello di conoscenza di queste lingue richiesto per accedere agli studi specialistici con la motivazione che l’antichità significa molte altre cose oltre le lingue classiche, per esempio archeologia, storia, poesia, retorica, diritto, e che richiedere una conoscenza avanzata del latino e del greco potrebbe limitare l’accesso al mondo antico di chi, per esempio, è attratto dallo studio dei miti classici (le altre motivazioni sulla discriminazione che così si produrrebbe per le minoranze svantaggiate qui non ci interessano).

Questo tipo di argomentazioni ha un certo peso per l’apprendimento scolastico delle lingue antiche: è inutile chiudere gli occhi sul fatto che anche da noi lo studio del latino nei licei scientifici e quello del greco in quelli classici è sempre meno apprendimento vero della lingua e sempre più (quando va bene) approccio a quelle letterature. Ma applicato agli studi avanzati sembra abbastanza preoccupante: è possibile immaginare uno studioso di Aristotele che non sa il greco e un archeologo principiante in latino? Agisce oltreoceano una certa concezione solo strumentale della conoscenza delle lingue che per fortuna a noi è ancora estranea: ricordo che in un romanzo di De Lillo un professore di Storia del nazismo non conosce il tedesco e si mette a studiarlo solo a metà carriera: un’eventualità impensabile per i nostri metri.

Certo, se l’apologia delle lingue classiche si fa attraverso i contenuti culturali accessibili pienamente solo attraverso la lettura degli originali, i libri in lode del latino e del greco diventano molto simili – al limite, indistinguibili – da libri come Perché leggere i classici di Giuseppe Cambiano o Gli antichi ci riguardano di Luciano Canfora, eccellenti viatici alla cultura antica.

D’altra parte puntare su ragioni intrinsecamente linguistiche significa avventurarsi su di un terreno scivoloso e pieno di trappole. Gardini lo sa, e mette in guardia contro le vecchie semplificazioni sul latino che “insegna a ragionare” (già: insegna a ragionare in latino …) o fa apprendere una certa disciplina di studio (un argomento, peraltro, usato anche da Gramsci). Qualche volta ci casca anche lui, come quando afferma che il latino «è la voce della nostra verità umana», ma è un peccato veniale perché dettato dal troppo amore per la lingua.

Marcolongo invece su argomenti strettamente linguistici insiste un po’ di più. Le attrattive del greco sembrano per lei consistere in quelle peculiarità che ci appaiono difficili da comprendere perché lontane dalle caratteristiche familiari alla nostra lingua. Per esempio il fatto che il greco destina molta attenzione all’aspetto del verbo piuttosto che al tempo (in soldoni, alla natura dell’azione compiuta e non al momento in cui si compie) o possiede ancora (per quanto raramente) residui indoeuropei come l’uso del duale accanto al singolare e al plurale. Il pericolo di questi argomenti sta nel fatto che tutte le lingue hanno il loro modo di interpretare e segmentare la realtà, e allora tanto varrebbe studiare i verbi di moto in russo che fanno qualcosa di simile o addirittura il lituano che il duale ce lo ha ancora e tra l’altro ha un numero spropositato di casi, sette nel lituano moderno e addirittura dieci in quello più antico.

Ricordi di scuola

Anche Marcolongo, però, pecca in fondo per amore. E per un amore lontano, che si tinge di rimpianto. Perché per lei, ma in questo caso Gardini non è da meno, latino e greco si identificano indissolubilmente con il tempo della scuola, con quello che si è imparato tra i banchi.

Roland Barthes ha scritto una volta che la letteratura è quello che si insegna: una frase che a me è sempre parsa lievemente assurda, perché se la letteratura fosse solo quello che si insegna non ci sarebbe alcun motivo per insegnarla. Ma che latino e greco siano quello che si insegna, e soprattutto quello che si impara (a scuola) mi sembra molto più indubitabile. E qui veniamo alle altre ragioni: non più quelle che ci spiegano perché dovremmo amare il latino e il greco ma quelle, forse più prosaiche, che hanno spinto tanti lettori ad acquistare libri che parlano del latino e del greco.

Questi libri vivono nello spazio della nostalgia. La loro dimensione è il ricordo del tempo di scuola. Non a caso in entrambi, in Gardini non meno che in Marcolongo, non sono in gioco il latino o il greco in astratto, ma il loro latino e il loro greco, le lingue che loro hanno imparato e il modo in cui le hanno imparate. Soprattutto, quello che hanno rappresentato per ciascuno di loro.

Gardini ne è del tutto consapevole, e scrive che Viva il latino è una biografia e Viva il Greco un ritratto. Non ci stupiremo, allora, che questo secondo libro inizi così: «Ricordo bene i primi giorni del liceo, non ostante siano passati da allora quattro decenni». Direi ancora di più: il latino di Gardini è un romanzo di formazione. Inaspettatamente, il latino si trasforma in strumento di riscatto sociale, come lo fu per il protagonista de Il rosso e il nero di Stendhal, diventa un mezzo di conquista di un mondo diverso da quello culturalmente asfittico di una famiglia piccolo borghese o forse operaia. «Scontentezza del presente ed entusiasmo per quel che non serve: questa strana combinazione mi rese latinista».

Marcolongo è molto più aneddotica. Il suo greco è fatto di ricordi del vocabolario Rocci, con i caratteri greci scritti piccoli piccoli e nessun grassetto, sicché ci si perdeva la vista. È fatto delle prime parole (italiane) scritte però con il nuovo alfabeto appena appreso, di continui rimandi all’esame di maturità e ai compiti in classe. È fatto di memoria e di rimpianto. Fa capire, allora, che cosa mi lascia insoddisfatto in questo tipo di libri, e invece è proprio quello che vi cercano gli studenti del classico diventati vecchi. I libri di Gardini e Marcolongo sembrano libri sulle lingue antiche, ma appartengono in realtà al genere, immarcescibile e un po’ dolciastro, dei ricordi di scuola. Ed è per questo che ai miei occhi si rivelano strumenti di una piccola frode. Una frode ingenua e indolore, ma pur sempre una frode.

Questi libri capitalizzano una rendita che non appartiene veramente a loro. Una rendita che è fatta di gioventù, di nuove amicizie, di primi amori, dell’inebriante sensazione di poter seguire qualsiasi strada e di poter realizzare i propri desideri. Ma tutto questo ha a che fare con l’età, non con il greco e il latino. O meglio ha a che fare col greco e il latino come ha a che fare con la trigonometria, la saponificazione dei grassi e le guerre di Successione.

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