Quand’è che l’uso della violenza è giustificato? Perché un uomo nel prendere le misure del mondo, non dovrebbe anche calcolare, con il movimento del braccio, lo spazio che gli servirebbe per sferrare quei pugni o quei fendenti con cui difenderebbe se stesso e i suoi affetti?

La rabbia è così diffusa che si potrebbe dire che la vita è ciò che ci accade mentre ci arrabbiamo con gli altri. In macchina, ovviamente; al supermercato, la trolley rage, il furore da carrello; a bordo di un aereo, la cosiddetta air rage; addirittura è stata coniata l’espressione wrap rage per indicare la rabbia che ci sorprende mentre apriamo le scatole dei surgelati. C’è qualcuno che sappia aprire i barattoli senza andare su tutte le furie?

La vita di Davide

Dentro le mura di Lucca, abita un neurologo. Si chiama Davide Ricci. È sposato con una donna, una logopedista, sorprendentemente vegana nonostante la madre sia una straordinaria cuoca e prepari tordelli da acquolina in bocca.

Ha un figlio, un quattordicenne d’intelligenza precoce e la passione per l’astronomia, un cane e due gatti tigrati. Davide è un uomo mite, che coltiva una serena rinuncia di sé, che vagheggia la fuga, e qualche anno prima avrebbe ceduto persino alle lusinghe della morte purché questa non gli avesse tolto il sonno come invece stava facendo il suo bambino appena nato.

La famiglia vive in una villa, la prima a essere stata realizzata interamente in legno in tutta Lucca. Ci teneva tanto, Barbara, a far costruire una casa dotata delle soluzioni tecniche più innovative e con il minor impatto energetico possibile. Davide indossa una bella giacca di lino, guida una Bmw e abita in una casa di legno, “come il sopravvissuto a una calamità naturale”.

Restare pietrificati

Il secondo romanzo di Fabio Bacà, Nova, pubblicato da Adelphi a novembre dello scorso anno e adesso nella dozzina del Premio Strega, è la storia di quest’uomo “geneticamente inabile alla violenza”, un individuo mansueto e leale, che si trova a confrontarsi con quella che fino ad allora aveva ritenuto la parte indecente e vergognosa della vita: la violenza. In un mondo alla frutta, sembrerà chiedersi alla fine Davide, la violenza è il dolce da portare in tavola prima che lo faccia qualcun altro?

Tutto ha inizio quando un ubriacone tenta di molestare sua moglie in un ristorante dove si erano dati appuntamento per pranzo. Davide è appena entrato nel locale, pigiato tra turisti stranieri che stanno discutendo su come dividersi il conto, quand’ecco che vede quello sconosciuto afferrare un lembo della camicetta della moglie. Davanti alla minaccia Davide più che spaventarsi resta perplesso. Pietrificato.

Nel film Forza maggiore del regista svedese Ruben Östlund, durante una vacanza in montagna sulle Alpi francesi, una famiglia, mentre è a tavola per pranzo, si ritrova ad assistere ad una spaventosa valanga: quando la moglie chiede al marito di proteggere lei e i loro due figli, quello se l’è già data a gambe.

Non è però questa l’indole di Davide Ricci. Lui ama sua moglie e non scappa. Solo che proprio non riesce a farsi venire il sangue agli occhi, e se pure questa calamità capitasse e scuotesse la sua vita, lui rinnegherebbe l’istinto e farebbe di tutto per razionalizzare, per vagliare la situazione e trovare il modo verbale e civilmente accettato di prendere le difese di Barbara.

Universi paralleli

Il cervello, Davide lo sa meglio di noi, è plastico e malleabile. Saprebbe adattarsi. Ma il suo cervello in questo momento non sembra lo stia aiutando granché. Davide non lo sa, ma si sta comportando come Tommaso d’Aquino prescrive ci si debba comportare davanti al pericolo: restando immobili, senza soccombere al desiderio di contrattaccare.

Prova a convincersi di aver sbagliato ristorante. O forse quella donna non è sua moglie e non è suo figlio quel ragazzo che le sta accanto. E se fosse “penetrato nelle piaghe di un universo parallelo, dove un uomo alto e grosso, in giacca, cravatta e stivali, aveva sposato sua moglie e generato suo figlio”?

Le pensa davvero tutte, Davide, pur di non arrabbiarsi. Il suo cervello è disposto a figurarsi un universo parallelo ma non di cedere a quell’offuscamento temporaneo delle sue facoltà che lo condurrebbe ad avere un moto d’ira e a intervenire.

E a intervenire allora ci pensa un altro uomo, dal volto insolito, i grandi occhi verdi e gli zigomi sporgenti, una faccia a cui non può che corrispondere un temperamento pericoloso. Quell’uomo prende un coltello da uno dei tavoli del ristorante e concia per le feste l’aggressore.

Confronti

È per civiltà o per vigliaccheria che Davide non è intervenuto, e anzi si è “nascosto come un verme in mezzo a una comitiva di turisti”? In vita sua non si è mai lasciato andare all’inerzia disonorevole della violenza né ha mai ceduto alla vendetta per i torti subiti. Non lo ha fatto con il primario del reparto che da mesi lo vessa e lo umilia pubblicamente, e anche con il minaccioso vicino di casa, che gestisce un locale notturno che disturba il sonno della sua famiglia. Davide non è mai ricorso all’aggressività.

Nova racconta anche l’insolito rapporto che si instaura, dopo quel giorno, tra Davide e colui che ha menato le mani, Diego. Nova è la storia di questo patto, l’amicizia tra il giudizioso e il violento. Tra chi crede come Francis Bacon che «la vendetta sia una sorta di giustizia selvaggia e più la natura dell’uomo si spinge a coltivarla, maggiore dovrebbe essere l’impegno della legge a estirparla», e chi si fa un onore di quella nota primitiva del suo carattere.

Tra il neurologo, che si è preso in casa due gatti e un cane perché la convivenza con quegli animali domestici aumenterebbe l’ossitocina, l’ormone responsabile del benessere psicofisico, e il bruto che ritiene la rabbia un’emozione da disciplinare. Secondo quest’ultimo la società moderna reprime gli istinti, inibisce l’aggressività individuale perché la considera una forza contraria alla civiltà. «L’universo si è espanso nel nulla in virtù della pura violenza», sostiene Diego.

Una faccenda ambigua

La rabbia è uno dei tratti significanti dell’essere umano. È ripugnate, se si traduce in violenza. Meschina. Ma è anche vantaggiosa. Vitale. Catartica. Un medico del XV secolo scriveva di aver curato un suo paziente tremendamente indebolito, semplicemente sedendo accanto al letto in cui quello era moribondo e ricordandogli senza tregua i torti subiti in passato.

Ma allora è davvero come pensa d’un tratto Barbara che per risolvere i problemi della convivenza urbana, l’unica soluzione sarebbe una vita da nomadi nel deserto dell’Australia sudoccidentale? Possibile che soltanto al volante della propria auto, guidando nel traffico cittadino, un uomo non si senta un criminale se la sua “percezione del lecito” è alterata e se vuole mandare al diavolo chi gli sta rallentando la corsa?

No, almeno secondo Diego. La violenza è faccenda ambigua, che va controllata, che va dominata. Quand’era un bambino, la madre, per compensare le furibonde liti casalinghe tra lei e il marito, non permetteva a Diego di vedere film in cui ci fossero duelli armati o scazzottate. Com’è che poi quel bambino sarebbe diventato un individuo che sfoggia persino qualcosa del Robert Vaughn, l’eroe ballardiano di Crash che viveva dell’adrenalina data dagli scontri automobilistici?

Due metà

Esistono due tipi di medici. Alcuni traggono dalle loro competenze, dal loro potere una vigoria invidiabile, un’esuberanza che si alimenta delle vite salvate in sala operatoria. Gli altri, invece, tutti i giorni escono dall’ospedale come se un piccolo frammento della propria vita fosse andato perduto. E così Fabio Bacà sembra uno scrittore con due metà: da una parte, come quella prima stregua di medici, mostra una vivacità inventiva sorprendente che si ravviva a ogni collisione violenta, e dall’altra, in scia alla seconda branca di dottori, quei continui scontri rilasciano sulle sue pagine un malinconico senso di transitorietà e vulnerabilità.

Su una parete della sala d’aspetto dell’ospedale in cui lavora Davide Ricci, accanto al bocchettone dell’estintore, c’è affisso un dipinto del pittore lucchese Alfredo Meschi. Non ci dice Bacà cosa ritragga quel dipinto, ma considerata la produzione dell’artista si può ipotizzare che davanti agli occhi di Davide Ricci si apra un panorama di campagna, i pastelli, magari un paio di case ammutolite, i colori tenui, le giornate quasi mai veramente soleggiate.

E ci si potrebbe persino chiedere se non sia davanti a quel ritratto paesaggistico, a quell’esibizione naturale che Davide – «non sono più solo il medico», dice, «sono il figlio prediletto della foresta e del fiume» – si interroga sul passar del tempo, sullo scorrere del sangue, e forse proprio al cospetto di quel dipinto si convinca della pericolosa eredità che rischierebbe di lasciare a suo figlio.

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