Guasconi disillusi melanconici o disperati, autentiche canaglie o poveri in canna, stelle al tramonto o tramontate da un pezzo. Sono gli Artisti pazzi e criminali di Osvaldo Soriano, di nuovo in libreria grazie a una delle intuizioni di SUR. Tra loro lui, il Gordo, com’era noto nel giro degli amici lo scrittore argentino, che guarda a se stesso, e alla sua presunta o reale inclinazione all’indolenza, con furbissima ironia.

«Chi conosce la mia reticenza nei confronti del lavoro capirà le mie esitazioni. Far uscire un quotidiano richiede uno sforzo e un impegno che non sono il mio forte». Il quotidiano era La Opinión, dove i ritratti dei suoi eroi perduti compaiono per la prima volta negli anni Settanta. Sarà lo stesso Soriano a raccoglierli in questo volume che rappresenta il suo «addestramento letterario». Ma anche un addestramento all’empatia, e una propensione al gusto dolceamaro di certe sconfitte, al rumore di certi tonfi che solo chi è stato davvero a un passo dal sole può permettersi di provocare.

Il Soriano giornalista

In questi nostri tempi di notizie urlate, di cronache pruriginose, di dolori esibiti, il laboratorio del Soriano giornalista è un piccolo manuale di senso della misura, con quel suo stile essenziale ma mai scarno, senza giudizio, capace di mettere la storia prima di tutto, di connettere il lettore con l'umanità vibrante dei suoi personaggi. «Questo criminale è diventato un appetitoso oggetto di consumo», osserva Soriano raccontando la storia Robledo Puch, una storia incredibile da Natural born killer: 11 omicidi e una trentina di rapine.

«I medici legali visitano l’accusato e si ha l’impressione che il suo squilibrio mentale non lo aiuterà a eludere l’ergastolo. [...] Robledo Puch non è un oggetto su cui i professionisti della medicina possano improvvisare teorie cucite a distanza. Si tratta di un essere umano, e non è possibile diagnosticare da un ambulatorio la malattia di un uomo che attende la sentenza in una cella». Uno scarto notevole considerando che la media dei colleghi parlava di «bestia umana», «fantoccio maledetto», «sciacallo». E qui sta la cifra di Soriano, capace come pochi di indagare le pieghe delle miserie esistenziali, sforzandosi di capirle, di utilizzare gli strumenti della letteratura per leggere negli altri le nostre bassezze.

L’articolo su Puch gli vale una promozione e un aumento di stipendio ma i privilegi vengono presto sospesi per quel suo modo di intendere la professione e, in ultima analisi, la vita: «Trascorsi sei mesi a vagare per la redazione senza scrivere una sola riga. Credo rimanga ancora oggi un record. [...] Oltre a non fare niente, io andavo in giro per la redazione attaccando bottone a chiunque e organizzando partite di calcio».

Il Novecento argentino

Nelle pagine di questo libro è racchiuso uno spaccato di un’epoca, il 900, e di un paese, l’Argentina, indomabile e complesso, se è vero come dice il suo autore che la «parabola crudele» de La Opinión fu in qualche modo quella del paese. Il giornale «finì in un baraccone di calle Vélez Sársfield con un sorvegliante militare che censurava il materiale da pubblicare», e il suo fondatore, Jacobo Timerman, durante il «vergognoso» interrogatorio del generale Camps, ribadì con una boutade: «Occorrono i migliori giornalisti di sinistra per fare un buon quotidiano di destra».

Sulle pagine culturali de La Opinión, con tutto quel tempo per pensare, Soriano prende la rincorsa per il suo capolavoro, con un omaggio alla parabola di Stan Laurel e Oliver Hardy che svilupperà in Triste, solitario y final. «Già allora Raymond Chandler iniziava il suo beneaccetto lavoro da infiltrato per incorporarsi al mio progetto: certe metafore, come la musica riempiva l’aria vengono dalla prosa romantica di Playback».

Colpisce, tra le molte cose, il filtro politico con cui Soriano rilegge la fine struggente e disperata di Stanlio e Ollio. «Ogni loro film aveva il semplice obiettivo di far ridere in maniera inedita negli Stati Uniti: con la distruzione della proprietà e la beffa della legge, i valori più ossequiati dai nordamericani del tempo. [...] Ogni volta che terminavano una scena, intorno a loro aleggiava il disastro. Case e automobili erano demolite, i poliziotti gabbati, i matrimoni distrutti. E l’American way of life? Forse Stan non voleva provocare quei cataclismi nella società, ma tutti i film che creò li contenevano come se l’anarchia fosse stato il suo modo per esprimere una società spietata».

Di questa via crucis della sconfitta, di questi ritratti così essenziali che pure riescono a commuovere, è lo stesso Soriano a svelare le carte, a spiegare il suo metodo che forse, oggi, diventerebbe un podcast dal ritmo sublime.

«La Historia de vida, quella che veniva pubblicata sul supplemento culturale de La Opinión, era una delle forme più difficili di servizio giornalistico. Consisteva nell’ascoltare, davanti a un registratore, per cinque o sei ore – talvolta di più –, un uomo o una donna che ricostruivano i migliori – o i più terribili – momenti della loro esistenza. Bisognava poi comprimere senza ridurre, rendendo al tempo stesso il sapore del racconto, lo stile narrativo dell’intervistato».

Fa parte di questo ciclo il profilo di Obdulio Varela, per una delle immancabili incursioni nel mondo del calcio. Quella di Varela sarebbe a un primo sguardo la storia di un vincente. Anzi, del protagonista assoluto della vittoria più clamorosa e romantica della storia del calcio. Quella dell’Uruguay ai mondiali del ’50, vittima sacrificale contro il Brasile, in casa del Brasile, nella finale di Rio per quello che poi divenne il celebre maracanazo.

Eppure non c’è retorica nel ricordo di quell’impresa, c’è anzi l’amarezza di un Varela invecchiato che se potesse tornare indietro nemmeno giocherebbe a pallone. Con l’incedere caratteristico di chi, per troppa rettitudine, non riesce ad accettare le contraddizioni della vita, il re del centrocampo uruguaiano dirà che «il calcio è un bello schifo. Dirigenti, certi giocatori, giornalisti, sono tutti ficcati dentro all’affare e non si preoccupano neanche un po’ della dignità dell’uomo». E questo la dice lunga sui rimpianti generazionali, su quanto prima fosse meglio sempre e per forza, se persino il tempo dei pionieri covava in sé il rimpianto dei bei giorni andati.

«Non ritornerei in un campo da gioco neanche se mi offrissero milioni. Ci ho sofferto molto e non lo sopporto. Per questo le ho detto che se oggi dovessi giocare una finale, mi segnerei un gol contro. Non vale la pena di metterci il cuore in una causa che è sudicia, contaminata».

In Artisti pazzi e criminali troviamo insomma un Soriano in purezza, la sua vecchia lezione ancora straordinariamente fresca e vivace, quella di un giornalista sensibile che ha già affinato lo sguardo laterale dello scrittore, afflitto dalla pigrizia tipica di chi passa la vita in cerca di una buona storia e dalla nostalgia della redazione sportiva, dove «guadagnavo benissimo e avevo escogitato un eccellente metodo per lavorare poco e saltuariamente».


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