Mi sono fatta la domanda che tante volte, mentre lavoravo al mio podcast, Chez Proust, ho rivolto ad altri amanti della Recherche.

Chi è il mio personaggio preferito? Amo molto la nonna; adoro Swann. Ma se proprio avessi una sola possibilità, direi un altro nome – quello che finora nessuno dei miei intervistati ha nominato.

Odette de Crécy, la vera diva del romanzo.

L’amore di Swann

Odette è la protagonista di uno dei grandi cicli amorosi della Recherche: l’amore di Swann. Anche se compare, fugacemente, pure in altri panni: è una misteriosa signora in rosa, una cocotte infrequentabile, nell’infanzia del narratore; è la modella che posa per Elstir, vestita da monello, col nome di Miss Sacripant. Il suo passato rimane vago, e proprio la vaghezza rivela qualche trascorso poco presentabile.

Odette insomma debutta come prostituta, ma arriva molto, molto lontano: madame Swann, poi madame de Forcheville. Acquista i suoi titoli di nobiltà, entra a far parte dell’alta società che la respingeva. È gretta, un po’ ridicola nei suoi snobismi, capace di grandi crudeltà. Eppure la perdono: mi è facile, perdonarla. Devo cercare di capire perché.

Forse perché proprio grazie all’innamoramento di Swann per lei si schiude davanti agli occhi del Narratore, per la prima volta, l’arcano doloroso dell’amore. E in questa scelta narrativa trovo una delicatezza commovente: ci sono persone che non si sarebbero mai innamorate, se non avessero sentito parlare dell’amore, ha scritto uno dei grandi moralisti del Grand Siècle, François de la Rochefoucauld.

Proust, raccontando l’iniziazione amorosa del Narratore nella forma di un innocente bovarismo che passa per la storia di Swann, sembra trasporre in un racconto vivo, pulsante, addirittura doloroso, questa massima così assiomatica.

Il Narratore bambino conosce l’amore per l’interposizione della persona che lo vive, cioè Swann. Che lo inizia al mistero, e lo segna. Guarda caso, non solo Gilberte, la figlia di Swann e Odette, è destinata a rappresentare per lui un evanescente, precoce sogno erotico; ma la stessa Albertine, il suo amore della maturità, è in un certo senso un’altra versione di Odette. Come Odette, Albertine appartiene a una classe sociale più modesta; come Odette, ha una condotta sulla cui moralità si diffonde una coltre di mistero. Forse sono solo sospetti, ma che importa? Il risultato non cambia, come non cambia il dolore lancinante della gelosia.

E non cambia nemmeno il meccanismo che innesca l’amore. Il detto popolare, in amore vince chi fugge, non ha mai preso tanta vita in un romanzo come nel momento in cui Proust racconta l’insorgere dell’amore. In Albertine tutto è fuga: le parole che non dice, persino il neo che ha sul viso. Quando la tiene prigioniera, quando la possiede davvero, il Narratore perde ogni interesse; non lo fa più soffrire, e allora l’annoia.

Odette, più astuta di Albertine, più educata ai trucchi della seduzione, irretisce Swann con una finestra chiusa da cui filtra, nella notte, il chiarore di una luce accesa. Tanto basta a fare di lui un detective, un decifratore accanito di segnali minuscoli; ad accendergli la smania di un possesso che sa impossibile, a infiammarlo di curiosità inesausta per la vita segreta di lei.

L’amore, con i dolori che si trascina dietro, lo colpisce proprio quando meno se lo aspetta, quando ha la guardia abbassata. È così che succede ai grandi poeti: anche a Petrarca non era andata diversamente («trovommi Amor del tutto disarmato»). 

Swann non si innamora di Odette la prima volta che la vede – anzi, la prima volta non gli fa una grande impressione: ha le guance un poco rovinate dall’acne, lui la trova volgarotta, la fama della sua bellezza gli pare esagerata – ma un giorno che la va a trovare e coglie un movimento distratto che la fa somigliare per un istante a Sefora, leggiadra figura biblica in un affresco di Botticelli alla cappella Sistina. Il fascino di lei, nel solo momento in cui non è in posa, in cui non cerca di darsi un tono, ma si dimentica di sé in un gesto minuscolo, trova il modo di parlargli la lingua che lui conosce: la lingua dell’arte.

Storia di un’outsider

Odette ha le guance rovinate, quando Swann la incontra la prima volta, perché fa una vita malsana, una vita cattiva. La sua bellezza deve perfezionarsi ancora; soprattutto, deve perdere il marchio della volgarità della sua prima giovinezza. È un personaggio complesso, forgiato da una storia di sopraffazioni che è iniziata quando era quasi una bambina.

Il suo potrebbe essere un destino segnato, come quello di altre cocottes letterarie, come Marguerite Gauthier, la signora delle camelie di Dumas, o la sua omologa teatrale, la Traviata, Violetta Valér: donne destinate a finire vittime degli amori che hanno ispirato, a sacrificarsi e consumarsi in malattie solitarie per scontare la passione che hanno acceso in giovanotti di buona famiglia, e che si è trasformata in una trappola non appena le cortigiane hanno abdicato alla freddezza imposta dal mestiere. Gli amanti sopravvivono; loro, la volta che si innamorano, soccombono.

E muoiono nascoste: i drappelli di sudditi adoranti le abbandonano, nel momento in cui cedono all’amore esclusivo; e quando poi l’amore esclusivo viene tradito dal perbenismo di padri spaventati per il futuro dei figli bietoloni, loro, le traviate, si trovano ormai ai margini della società che le getta via dopo averle usate. E come chiosa Dumas, quanto più la vita di queste donne incuriosisce e fa rumore, tanto più la loro morte passa inosservata.

Ma non è questo il destino di Odette de Crécy, con il suo nome che sembra l’imitazione d’ottone di un nome aristocratico; lei che è stata venduta dalla madre, appena adolescente, a un gentleman poi sparito, lei che a Nizza nella sua prima giovinezza ha condotto una vita di cui si sa poco, ma che si hanno buone ragioni per sospettare disdicevole, sotto lo pseudonimo di Miss Sacripant... Odette è una demi-mondaine: un’outsider.

Però, nonostante l’origine opaca, è talmente in gamba da riuscire in un’impresa straordinaria: in una società spietata che, se lei fosse meno accorta, si accontenterebbe di risucchiare la sua bellezza per poi sputarla via come un guscio inutile, Odette riesce a ritagliarsi un posto, a brillare. E nel finale del Tempo ritrovato, quando il mondo aristocratico che la rifiutava è ormai al tramonto, sfatto, invecchiato, devastato, lei è l’unica a conservare un misterioso, e inquietante, alone di giovinezza e splendore.

Per quanto mostri, soprattutto agli inizi della sua scalata, dei tratti stolidi, è una donna intelligente, a suo modo; come Swann, anche lei è un’esteta – un’artista della moda – e riesce a emergere grazie all’educazione che, quasi impercettibilmente, lui le impartisce, nella loro vita matrimoniale che non è particolarmente felice ma nemmeno una tragedia, nonostante lui l’abbia sposata quando già non l’amava più con la tormentosa intensità dei primi tempi.

E dunque, perché l’ha sposata?  Per snobismo supremo? Per farsi beffe dei pregiudizi e delle piccolezze dell’ambiente chic di cui è stato a lungo il beniamino? Per essere il pigmalione di una piccola prostituta e farne una celebrità, dimostrando di che pasta sono fatte le divine del pantheon del jet set? Chissà. Forse la sposa anche solo perché non può ignorare quel desiderio che è divampato, poi si è estinto, ma intanto ha bruciato tutto quel che trovava, lasciandolo diverso – non migliore, ma certo cambiato.

Un personaggio eccezionale

Liane de Pougy

Odette è in effetti un personaggio che nasce eccezionale: Proust la modella su una somma di coquettes formidabili. Laure Hayman, approdata a Parigi dal Cile, scultrice, amica di artisti, probabilmente amante pure del prozio materno di Marcel; Mery Laurent, modella e amante di Manet, una demi-mondaine il cui salotto accolse Mallarmé, Zola e Proust stesso. E la straordinaria Liane de Pougy, ballerina, cortigiana, autrice di romanzi, apertamente bisessuale, sposa di un principe rumeno, e infine monaca.

Forse anche in omaggio a questi modelli così peculiari, Odette non è solo una diva. Ha qualcosa del folletto proteiforme, essendo in un certo senso una proiezione del desiderio: un tratto che lei è abilissima a sfruttare, la sua vendetta, forse, per essere stata venduta al mercato della lussuria ancora quasi bambina.

Ma Proust non è così puritano né così ingenuo da pensare che possa esistere una versione astratta di lei, una versione cioè di Odette che non conosca i vantaggi del mercimonio del suo corpo e del suo fascino: per cui possiamo interpretare la sua straordinaria abilità seduttiva come il cinico compimento di una vocazione, che vede, e sfrutta, nell’amore anche i tratti di crudeltà che un’educazione sentimentale più bigotta o comunque più presentabile non avrebbe saputo rivelarle.

Dalla parte di Nothomb 

Amélie Nothomb

Forse è questo che mi affascina in Odette – il fatto che si muova nell’universo del desiderio con l’agilità dispettosa di un miraggio, capace di giocare a rimpiattino con gli occhi che la inseguono. Ma c’è poi un’altra ragione, più profonda e più nascosta.

Da sola non l’avrei messa a fuoco; per rivelarmela ci sono volute le parole di un’altra scrittrice, Amélie Nothomb. La incontro a Milano per presentare il suo romanzo Primo sangue: autobiografia immaginaria di suo padre, il diplomatico Patrick Nothomb, a cui non ha potuto dire addio quando è mancato, nel pieno dell’emergenza Covid, e che ha dunque salutato prestandogli la voce in questo racconto della sua vita.

In un vecchio ristorante, dopo la presentazione, mi parla del suo rapporto con la Recherche: «Avevo sedici anni quando lessi Dalla parte di Swann. Era complicato, bellissimo, ma facevo fatica. A diciannove anni lessi tutta la Recherche, l’amai molto, ma era difficile. Nel 2016 – nel frattempo avevo qualche anno in più – l’ho di nuovo letta per intero e questa volta è stata un’esperienza estatica. Penso che sia un libro che guadagna nell’esser letto in età adulta. Non capisco come sia possibile trovare Proust difficile: raggiunta una certa età, diventa un autore pienamente accessibile, estremamente divertente… e nel quale è bello accomodarsi, vivere. Rileggere Proust è una gioia».

Sono d’accordo con lei. Che continua: «La nonna è un personaggio magnifico. Una cosa sconvolgente è che quando la nonna muore, la mamma del narratore prende il suo posto. Diventa la nonna. È una cosa di cui mi sono resa conto dopo la morte di mio padre, e dopo che ho scritto il libro: ho come la sensazione di trasformarmi in lui, in mio padre. Di star prendendo il suo modo di parlare. E c’è qualcosa di vero, a un livello psicanalitico: quando muore tuo padre, quando muore qualcuno che ami, tu assumi alcune delle sue caratteristiche. Così ho capito che Proust mi parla anche della mia stessa vita».

E io ho capito che la mia predilezione per Odette, che si deve scontrare con le piccole e grandi crudeltà a cui sottopone Swann, è giustificata da questo: dal fatto che, come mi ha mostrato Nothomb con la sua osservazione, anche fra loro succeda qualcosa di simile a quel che accade fra la nonna e la mamma.

Anche Odette, quando perde Swann, anche se si sono amati in una maniera forse imperfetta (ma non sono imperfetti tutti, gli amori?), si trova a diventare una creatura ibrida, che conserva di lui alcuni tratti, fusi insieme ai suoi. E così, il suo trionfo nel finale è, in un certo senso, la condizione che permette anche a Swann di trionfare attraverso di lei, lui che l’ha sposata sfidando la riprovazione del gran mondo.

A questo punto devo chiedere a Nothomb qual è il suo personaggio preferito. Spero che mi dica Odette. E invece…

«Sono molto affezionata ad Albertine. Albertine è un personaggio sfortunato, ingiustamente disdegnato; che giunge fino al sacrificio per dimostrare un amore che non prova. Io l’amo molto, mi sconvolge. E la sua fine… beh, capiamo che il Narratore ha bisogno della sua morte per potersi elevare: è una sorta di sacrificio assurdo, ma la rende ancora più amabile».

È vero: Albertine, struggente erede di Odette, è un personaggio difficile da dimenticare. Sono molti i romanzi i cui personaggi ci appaiono vivi, come se facessero parte del nostro mondo a pieno titolo. Mi domando, però, quanti altri personaggi letterari condividano, con la piccola folla che abita la Recherche, queste ambivalenze così umane, quest’impossibilità di lasciarsi imbrigliare dal giudizio. Quanti ci offrano la possibilità di infilarci dentro di loro, come ci si infila in un vestito, e di provare, per il tempo che dura la lettura, a dimenticarci di noi stessi.

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