Aggiungi un posto a tavola, si diceva una volta. Che ci sia un amico, un parente o un collega in più, il concetto di cucina si accompagna da sempre alla convivialità che contraddistingue il rapporto dell’uomo con il cibo.

L’idea di uno spazio fisico allestito allo specifico scopo di consumare i pasti ha assunto nel tempo un significato profondo, elevandosi fino a diventare uno degli elementi distintivi delle tribù sociali che di volta in volta si sono andate costituendo.

Dalla famiglia ai team di lavoro fino ai gruppi classe nelle scuole di ogni ordine e grado, tutti – ma proprio tutti – si danno appuntamento attorno a una tavola imbandita per celebrare i momenti importanti, dalle cerimonie fino ai più «classici» ritrovi del sabato sera.

In ogni città, grande o piccola che sia, trattorie, osterie e ristoranti sono diventati veri e propri aggregatori sociali se non addirittura icone.

Secondo i dati del rapporto Fipe 2019, prima della pandemia in Italia erano attive oltre 92mila imprese del settore food, nelle quali trovava impiego più di mezzo milione di persone.

L’impatto delle piattaforme social 

Paese che vai, locanda che trovi, verrebbe da dire. Tutto vero se non fosse che oggi, con l’avvento di quella che è stata ribattezzata «platform society», i consumatori hanno assunto sempre di più il ruolo di utenti di servizi migrati nell’ecosistema virtuale.

La cucina, in tal senso, non fa eccezione, con il boom dei servizi di delivery. In Italia il mercato del cibo a domicilio riguarda quasi il 70 per cento della popolazione e genera un indotto che nel 2023 ha sfiorato i due miliardi di euro, con le tre principali aziende del settore (Just Eat, Glovo e Deliveroo) a spartirsi un bottino davvero ghiotto.

Fra i trend più recenti, oltre ai meal kit che permettono di preparare cibi e pietanze con le dosi già prestabilite, c’è anche un aumento degli ordini preparati e distribuiti dalle cosiddette dark kitchen.

Il fenomeno delle cucine fantasma, nate e diffuse all’indomani della pandemia, rivoluziona il concetto stesso di ristorazione sfruttando le potenzialità del digitale ma ponendo, al tempo stesso, alcuni interrogativi in termini sanitari, professionali e di tutela del consumatore.

Tecnicamente, il termine dark kitchen viene utilizzato per indicare una cucina dedicata esclusivamente alla preparazione di cibi da asporto o per la consegna a domicilio tramite piattaforme di delivery.

Esistono però dei punti ancora «oscuri» dietro la proliferazione di queste cucine.

Su tutti, il fatto che mancando lo scambio tra fornitore e utente del servizio, chi ordina un piatto molto spesso potrebbe non sapere che il suo ordine verrà preparato all’interno di una dark kitchen.

Questo perché le cucine fantasma elaborano e soddisfano contemporaneamente gli ordini di tanti locali, talvolta anche molto diversi tra loro, che per così dire «appaltano» esternamente la realizzazione dei cibi destinati al delivery per smaltire una domanda sempre più in crescita, specie nelle aree urbane maggiormente popolate come Roma, Torino, Napoli e Milano.

Lati oscuri di cucine oscure

Nelle ultime settimane proprio il capoluogo lombardo ha fatto da sfondo a un’inchiesta di Striscia la Notizia nella quale venivano mostrate dall’interno alcune cucine fantasma.

Tanti fornelli dove vengono preparate varie tipologie di pietanze, mentre decine di tablet posizionati su una parete processano gli ordini.

Gestendo le comande di più ristoranti, una singola dark kitchen fornisce ai rider piatti pronti da distribuire in giro per la città esattamente come se la consegna partisse dalla cucina del locale prescelto dal cliente in fase di acquisto tramite app.

Fin qui nulla di strano, illecito o pericoloso per la salute del consumatore.

L’inchiesta del tg satirico ha portato alla luce quelli che invece possono essere i rischi legati alla presenza di allergeni nei cibi che, come mostrato nel servizio, potrebbero venire preparati in ambienti dalle dimensioni ridotte che favoriscono la contaminazione crociata, ossia il passaggio di sostanze da un alimento all’altro.

Condividere non solo gli utensili da cucina, ma gli stessi piani di lavoro per preparare i vari piatti destinati al delivery potrebbe quindi costituire un rischio concreto per chi è intollerante o allergico a determinati prodotti, che hanno in questo modo la possibilità di mescolarsi al resto del cibo anche soltanto per un errore umano, invisibile agli occhi del consumatore finale.

Le dark kitchen hanno innescato una trasformazione profonda nel mondo del food.

A ben guardare, però, al netto di alcune criticità ancora insolute e non certo riconducibili ad ogni singola cucina, esistono anche degli aspetti virtuosi di questo nuovo concept.

Per quanto risulti necessario agire al più presto per «fare luce» sulle dark kitchen, incrementando la trasparenza in fase d’acquisto magari con indicazioni specifiche circa la provenienza dei piatti, è indubbio che proprio questi spazi abbiano incrementato notevolmente la possibilità di bilanciare domanda e offerta soprattutto nelle grandi città.

Un modello più trasparente

L’ultima frontiera sono i cosiddetti food corner, già presenti in diverse aree d’Europa e realizzati sul principio di spazi condivisi per soddisfare ordini di locali differenti.

Le chiamano multi kitchen, un termine che restituisce con maggior esattezza il funzionamento di questi luoghi: il primo ad avere aperto in Italia si trova a Torino, nel quartiere Pozzo Strada, con 15 postazioni di cucina professionale su una superficie di 870 mq.

La novità più grande consiste però nella possibilità per i clienti di recarsi direttamente in loco per ritirare gli ordini, un modo «antico» di concepire un’attività al contrario nuovissima.

Un pub, una pizzeria, un ristorante con menù anche molto diversi, riuniti in un unico punto nel cuore di un’area periferica da cui gli ordini partono in tutta la città.

L’idea del food corner è stata poi replicata in altre zone d’Italia e ha cominciato a prendere piede anche sui social network, accompagnando la community alla scoperta di queste «nuove« cucine tra foto di poké, burritos e tranci di pizza.

Le dark kitchen raccolgono le istanze di chi fa impresa nel campo del food, ma lasciano scoperti una serie di interrogativi su cui è giusto fare chiarezza.

Se è comunque vero che le dark kitchen nascono con l’obiettivo di alleggerire i locali tradizionali dal sovraccarico di domanda, il loro modello le rende una necessità nel complesso universo delle piattaforme di delivery per rispondere, allo stesso tempo, a una clientela in costante aumento.

Da queste cucine così lontane dalla realtà conviviale dei ristoranti i piatti finiscono, paradossalmente, per alimentare proprio il mercato di chi sceglie di ordinare cibo a domicilio da consumare insieme ai propri amici (il 57 per cento degli under 35, secondo i dati YouGov 2024).

Per quanto il mondo dei fornelli appaia destinato inesorabilmente ad atomizzarsi sotto il peso della domanda, le tavolate di gruppo sembrano restare nonostante tutto una bella prerogativa ancora dura da scalfire.

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