Il mare bagna Milano. Nel quartiere Vigentino, un tempo periferia sud-est segnata dal fascio dei binari dello scalo di Porta Romana, tutto appare fluido e in progress. Un tipico esempio di paesaggio post-moderno tra volumi di archeologia industriale e lavori in corso per la costruzione del villaggio olimpico, che dopo i Giochi invernali 2026 dovrebbe diventare uno studentato.

Sul cantiere svetta la Torre della Fondazione Prada, la «nuova Velasca» di sessanta metri progettata dall’olandese Rem Koohlaas, un segno/sogno della Milano da bere fare baciare lettera testamento (la speranza di un’eredità, ultima chance per i fuorisede e non solo nella città più cara d’Italia). La «Prada» occupa gli ex corpi di fabbrica della SIS - Società Italiana Spiriti, che produceva il brandy Cavallino Rosso di un popolare Carosello con Nino Benvenuti «agente 00SIS». In questi edifici fino al 23 settembre è allestita un’importante retrospettiva dedicata a Pino Pascali (1935-1968), forse il più mediterraneo dei novecentisti dell’arte, a cura del britannico Mark Godfrey. La mostra include una cinquantina di opere provenienti da musei italiani e internazionali o da collezioni private, più altre di artisti del Secondo dopoguerra assimilabili al Nostro, una selezione di fotografie, proiezioni video etc.

L’arte con l’amianto

Nella Roma fervida di idee e di incontri dei primi anni Sessanta, Pascali è stato un esponente di rilievo se non il mattatore dell’Arte Povera teorizzata dal critico Germano Celant e propiziata da Michelangelo Pistoletto. «Povera» in virtù dei materiali miserrimi o di riciclo, dalla terra all’acqua, dalle scorie industriali alla plastica, dalla paglia all’eternit... Sicché l’installazione Campi arati fatta di amianto e adagiata sul pavimento viene sorvegliata a vista dalle guide della Fondazione affinché nessuno, toccandola per caso, ne disperda i pericolosi residui nell’ambiente.

Artista ludico sensuale vulcanico visionario guascone, e «sempre attuale perché esibizionista» come lo definisce Godfrey, oggi Pascali verrebbe considerato «multimediale» per il suo lavoro che, insieme alle sculture, spazia tra dipinti, performance, grafiche, scenografie, collage, cartoni animati, sigle e Caroselli per la RAI che tra l’altro gli propose un’assunzione subito rifiutata (i Caroselli sono analizzati in vari studi di Marco Giusti).

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Un comunicatore formidabile nei titoli e nella promozione anche di sé stesso, che in poco più di un quinquennio, dal 1963 al ’68, concepì circa centocinquanta opere. Del resto, siamo nelle stagioni della Pop Art, dell’affermarsi del Concettuale o del New Dada, e insomma delle neoavanguardie che anticiparono e marcarono il grande fuoco del ’68. Pascali appare sulla scena insieme a Boetti, Schifano, Paolini, Festa, Kounellis, con la sua originalissima vena primitiva e decisamente post-moderna: il riutilizzo degli oggetti, le armi-giocattolo più vere del vero che nel Mediterraneo non hanno mai smesso di sparare (il cannone intitolato «Bella ciao»), i giganteschi «bachi da setola» fatti di scovoli in nylon, la tarantola gigante «Vedova blu» che evoca il morso del ragno nel Salento «terra del rimorso» di Ernesto De Martino, il «Grande Rettile» e la ricostruzione in tela dello scheletro di dinosauro che non piacerebbe al ministro Valditara… O lo stupefacente «Arco di Ulisse» in lana d’acciaio su struttura di legno, sintesi perfetta del connubio tra il mito e i materiali industriali.

Il nomadismo del tempo

«Solo io ho le chiavi di questa parata selvaggia», dice Pascali. La fedeltà-infedeltà al genius loci mediterraneo è la cifra essenziale che balena anche nel percorso della Fondazione Prada. Beninteso, nulla di arcadico, di nostalgico, di pacificato v’è nella ricerca dell’artista pugliese, anzi, il sentimento del tempo in Pascali è sempre conflittuale: il passato e il presente si incontrano e si scontrano senza alcuna edulcorazione, si nutrono di suggestioni beffarde, bambinesche e appunto geo-sentimentali.

È un nomadismo che, echeggiando inconsapevolmente la filosofia di Derrida, «decostruisce» la tradizione mediterranea più che negarla: la metafisica di De Chirico, e, andando indietro fino agli impressionisti, il «viajar para pintar» dello spagnolo Joaquin Sorolla o la sintesi tra natura e modernità di Giuseppe De Nittis. Quello scavezzacollo di Pino elabora il dilemma alla sua maniera: in una scena del film di Luca Patella SKMP2 del 1968 fa il bagno nelle acque di Afrodite, accarezza e bacia la riproduzione di una testa femminile classica e subito dopo l’annega.

La morte prematura

Pascali muore l’11 settembre 1968 – a 32 anni – a causa di un incidente lungo il Muro Torto alla guida della motocicletta con cui scorrazzava nelle notti romane, dall’atelier di via Boccea, dove accumula in cortile i cascami industriali per i suoi bricolage, alle febbrili puntate sulla pista da ballo del «Piper» di Patty Pravo che avrebbe ben potuto dedicargli «Ragazzo triste come me, ah ah…». Il ’68 è l’anno cuspide della rivolta studentesca, ma anche della personale consacrazione grazie al padiglione riservatogli dalla Biennale di Venezia ai Giardini, che Pino difenderà dai contestatori.

Mentre Pasolini alla Mostra del cinema invita il pubblico a boicottare il suo Teorema, Pascali ribatte agli studenti che non vuole piantare baracca e burattini perché è nella forma espressiva l’autentica dimensione politica di un artista (aveva ragione lui, avremmo scoperto molto dopo). La Biennale gli riconosce il premio postumo per la Scultura e sarà il viatico di un inarrestabile boom sul mercato dell’arte.

I primi esegeti di Pascali furono il critico d’arte Pietro Marino, la femminista Carla Lonzi, il gallerista romano dell’«Attico» Fabio Sargentini che lo lanciò, Palma Bucarelli che era la soprintendente della Galleria nazionale di arte moderna a Roma (aveva salvato decine di capolavori nella capitale occupata dai nazisti), e Anna D’Elia, curatrice di una antologia critica per Electa e dei testi del documentario Sull’orlo della gloria. La vita e le opere di Pino Pascali diretto da Maurizio Sciarra.

Ricorda Marino: «Anche per il padre, il cavalier Franco Pascali poliziotto in pensione della Questura di Bari, Pino era uno scapestrato o giù di lì. Ancora quello che gli rubava la pistola d’ordinanza per giocare in casa con la scimmia che aveva chiamato Cita, come quella nei film di Tarzan. “Solo ai funerali, quando ho visto tanti artisti e tanta gente, ho capito chi era mio figlio” – mi disse quando ci incontrammo a Roma per concordare le modalità del premio che voleva istituire in sua memoria».

La sua tomba si trova nel cimitero di Polignano a Mare, il paese dei genitori e il luogo delle vacanze rispetto alla vicina Bari dov’era nato e aveva studiato, lo stesso paese donde proveniva Domenico Modugno. Fino a pochi anni fa era un incantevole e sonnacchioso borgo di pescatori e di piccoli proprietari terrieri, con le alte scogliere e le balconate affacciate «nel blu dipinto di blu». Case bianche, la spiaggia di Cala Paura in un canyon che taglia la roccia come una ferita e una imponente scalinata che digrada verso il mare e fa venire in mente quella del «Potëmkin» a Odessa. Ci si andava a gustare i gelati più buoni della zona o per una visita alla millenaria abbazia di San Vito, nelle cui stanze da tempo hanno eletto dimora l’artista Miki Carone e la gallerista Rosalba Branà, la quale vent’anni fa ha ripreso in loco le fila del Premio Pascali via via assegnato a Studio Azzurro, Fabrizio Plessi, Adrian Paci, Jan Fabre, Christiane Löhr...

Oggi la Fondazione si è trasferita nell’ex mattatoio di Polignano, un edificio bianco proteso sull’Adriatico sede del Museo Pascali, presieduto dal manager e collezionista Stefano Zorzi che ne persegue il rilancio. Mentre Polignano si è trasformata in una Acapulco nostrana tra gare di tuffo, B&B a più non posso e simulacri folk della civiltà contadina.

«Questa è la storia di un ritorno, alla propria terra, al sole, al mare». Sono le parole che suggellano Pino di Walter Fasano (2020), film che documenta l’acquisizione dei Cinque bachi da setola e un bozzolo da parte della Regione Puglia per un milione e mezzo di euro. L’opera è esposta alla «Prada» insieme ai 9 m² di pozzanghere giunti dalla Pinacoteca «Corrado Giaquinto» di Bari, uno scrigno custodito con cura dalla delegata culturale della Città Metropolitana, Francesca Pietroforte. E a conclusione della mostra milanese ecco 32 metri quadrati di mare circa, acqua colorata all’anilina in vasche di alluminio zincato, in cui si riflettono le gigantografie alle pareti degli scatti di Ugo Mulas con Pascali che si presta a far da modello quanto mai cool. Diceva di quest’opera: «Ho scelto un mare perché è da parecchio tempo che ne inseguo l’immagine. L’ho realizzato con l’acqua anche perché ha delle proprietà allucinanti abbastanza notevoli. Specialmente per via del colore, che assume una dimensione di profondità e di spazio che, nei quadri, viene a mancare».

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