In questi giorni è esplosa una polemica nei confronti del personaggio di Alain Elkann che ha espresso il suo disagio per una serie di situazioni poco piacevoli accadutegli durante un viaggio in treno. Tutto il popolo del web si è scagliato contro di lui giudicandolo classista, vegliardo, stronzo. Ebbene io a queste persone voglio dire solamente una cosa: ipocriti.

Alain Elkann è il miglior compagno di viaggio che chiunque di noi possa mai desiderare di incontrare in treno. Ma andiamo per ordine: tutti noi abbiamo preso un treno almeno una volta nella vita. Chi occasionalmente per raggiungere luoghi di villeggiatura, chi per lunghi viaggi di lavoro, i più sfortunati di noi lo prendono quotidianamente facendo i pendolari.

Da persona che viaggia regolarmente e quindi costretta a stare in luoghi chiusi con altri esseri umani, sento di poter fare senza timore di smentita questa affermazione: viaggiare in treno non è mai piacevole. C’è spesso calca, i sedili sono scomodi e le pagine più orribili della storia del Novecento sono legate all’essere fatti salire su un treno o alla sua puntualità. Eppure Alain Elkann ha preso un treno. Poteva prendere un jet privato (i soldi non gli mancano) o fare una videochiamata con i potenti mezzi che il suo denaro gli permette (videofonini, fax) e invece lui ha coraggiosamente scelto di utilizzare l’alta velocità.

Per andare dove poi? A Foggia. Nessuno va volentieri a Foggia, mai. Nemmeno i foggiani. E non lo dico io, ma i foggiani stessi: Pio e Amedeo sono di Foggia eppure ne sono scappati, come raccontano nella canzone popolare Fuggi da Foggia.

Renzo Arbore è di Foggia, eppure da sempre si spaccia per napoletano. Padre Pio era stato mandato a Foggia, ma scrisse al padre provinciale di essere mandato a San Giovanni Rotondo perché, a suo dire, Gesù gli avrebbe assicurato che là sarebbe stato meglio (Epistolario, 4 voll. Corrispondenza con i direttori spirituali, 1910-1922, pag. 798).

Eppure dove andava Alain Elkann? A Foggia. Questo ricco signore anziano ha deciso di mettere a repentaglio la propria vita recandosi in prima persona verso quella che le cronache recenti ci dipingono come una delle principali destinazioni dimenticate da Dio. E non è neanche stato incauto, ma lo ha fatto con tutte le precauzioni del caso: andando in business class.

La business class

Certo, potrebbe essere considerato classista. Ma dove dovrebbe andare un businessman se non in business class, sentiamo? A spalare carbone su una locomotiva scagliata a bomba contro l’ingiustizia? Ma non scherziamo.

La business class non è il male. La business class è quel timido miraggio di oasi felice per cui le persone che viaggiano per lavoro pagano una cifra maggiorata rispetto al biglietto regolare (comunque meno del prezzo di un tatuaggio del proprio figlio neonato sul polpaccio) per avere un ambiente il più possibile sereno, dove poter lavorare senza che capitino quelle spiacevolezze che di solito accadono quando si è a contatto con altre persone in luoghi chiusi (di solito: cani che abbaiano, bambini che piangono, partorienti che espellono bambini che piangono mentre uomini di mezza età ascoltano a tutto volume video di coreani che spremono eczemi su TikTok).

Per cui, ricapitolando: da un lato abbiamo il buon Elkann, che umilmente prende un treno di linea, col suo biglietto stampato con cura su un foglio A4 da mostrare prontamente al controllore, intento a farsi i fatti suoi senza voler dare il benché minimo fastidio al prossimo e anzi, magari pure ben disposto a darti un buongiorno e un buonasera di cortesia. Il passeggero perfetto, che tutti vorremmo avere accanto in un lungo viaggio verso Foggia.

Dall’altro un manipolo di maranza tatuati venuti dal nord pronti a concupire coi loro membri padani delle giovani donne pugliesi. Il peggior tipo di persona da trovarsi davanti non solo in uno scompartimento, ma nella vita.

E chi abbiamo deciso di mettere alla gogna? Il primo, colpevole solo di aver dipinto i secondi come un esploratore avrebbe descritto dei bonobo intenti a lanciarsi delle feci. Tutte considerazioni che sfido qualunque lettore di Repubblica nelle stesse condizioni a non fare. Alain Elkann ha solo avuto il coraggio di metterlo per iscritto e consegnarlo alle stampe, con quell’incoscienza e quel candore che solo i folli e i visionari hanno.

E invece gli è stato dato del classista e del figlio di papà, assolvendo implicitamente un manipolo di debosciati anch’essi ricchi, anch’essi figli di papà (chi gliel’ha pagata la business class? Dove hanno preso i soldi dei tatuaggi?) che ben pensavano di fare di uno scompartimento carne di porco, incuranti degli altri passeggeri dai capelli canuti. A meno che non fossero rapper o trapper, in quel caso ci sta che facciano casino.

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