Quando ho visto la campagna firmata dall’agenzia Armando Testa per Enit, senza sapere nulla, senza conoscere budget, senza la decantazione necessaria all’analisi propria di chi fa il mio mestiere, la prima cosa che ho pensato, da spettatrice è stata: mah! La Venere di Botticelli trasformata in una influencer virtuale messa su uno sfondo ritoccato con un claim ad accompagnare e condire il tutto: Open to meraviglia! Una creatività da lasciare davvero a bocca aperta.

Da cosa dovrebbero essere attratti i nostri preziosissimi turisti provenienti dall’estero vedendo la campagna, i video, ascoltando i testi mirabolanti e traboccanti di stereotipie? Come dovrebbero memorizzare un claim che usa una delle parole più difficili da pronunciare per chiunque non sia italiano? Queste sono state le mie prime domande. Devo ammettere che la scoperta di questa iniziativa è arrivata a me attraverso il video di presentazione dell’intero progetto in cui, i ministri committenti, con un linguaggio altrettanto carico di retorica ci ricordavano che, si sa, la pubblicità è l’anima del commercio!

Le premesse non erano buone. Dopo di che arriva la notizia che l’intero progetto è costato ai contribuenti nove milioni di euro. Entro mezza giornata abbiamo evinto che il gruppo Armando Testa non aveva registrato il dominio, che la nostra Ferragni botticelliana era stata “messa al mondo” con immagini di repertorio, che i video erano stati realizzati con immagini stock per di più ambientate in Slovenia e che i nostri luoghi da valorizzare sono stati tradotti in maniera imbarazzante: per fare un esempio, Camerino è diventata Garderobe e Prato, Rasen. Da non crederci!

Ascoltare i bisogni

La mia idea che il risultato dell’operazione fosse solo il frutto di un brief a digiuno di visione ha iniziato a vacillare. La comunicazione è un gesto potente e per essere efficace deve ascoltare i bisogni, i desideri e le attese di chi ne usufruirà. Comunicare di per sé non basta, non è sufficiente, bisogna farlo bene. Le neuroscienze applicate al marketing e alla comunicazione insegnano che l’utilizzo di stereotipi funge da facilitatore alla comprensione, alla memorizzazione e alla decodifica del messaggio, ma quando gli stereotipi cannibalizzano il contenuto, il tutto implode, innescando un effetto boomerang come quello a cui stiamo assistendo.

Ma diciamoci la verità, questa campagna pecca in basilari aspetti analitico strategici – che pare non siano stati affrontati se questi sono i risultati – ovvero un ascolto di quello che gli amici stranieri pensano e di come giudicano l’esperienza fatta nel nostro Paese. Inoltre, a livello percettivo non è proprio un caso studio esemplare: le immagini sono ibride, a metà tra il reale e un dipinto, la Venere23 è un “personaggio” in cui nessuno può trovare immedesimazione, dotata di una inespressività che offende il Botticelli; per dirla tecnicamente contribuisce a un prodotto cognitivo scadente e inefficace. Non funge da testimonial – perché non ha la potenza mediatica necessaria – e nemmeno da vera influencer.

La polemica è stata alimentata dal costo dell’operazione, ma in realtà 9 milioni euro non sono una cifra esorbitante se si pensa agli investimenti di diffusione internazionale e a quanto il turismo sia strategico e fondamentale per l’economia di un paese come il nostro che ha per vocazione l’ospitalità, la bellezza, la cultura, il gusto.

Quello che lascia l’amaro in bocca è il come. Dico questo perché chi fa comunicazione ha la responsabilità di educare all’eccellenza, di fornire strumenti per far comprendere che il contenuto vale più del contenitore, che l’identità del brand Italia deve essere portatore di un’associazione di pensiero capace di innescare il desiderio della scoperta, lo stupore per un patrimonio immenso da esplorare, che venga perseguito il risultato di un’esperienza positiva e memorabile ben lontana dai luoghi comuni. La conversione deve essere reale e non un bla bla bla: il purché se ne parli non è mai stato un buon canone, ancora di più se a spese dei contribuenti.

Da un gruppo che porta il nome di uno dei professionisti più strabilianti della comunicazione italiana ci si aspetta un capolavoro strategico-creativo, non un accrocco di sciatteria. Personalmente auspico sempre un approccio alla complessità, e nel caso in cui non si condivida il brief del committente, auspico persino il gesto etico di dire, no grazie.

Anche il messaggio di qualche giorno fa, “Open to grazie”, che rimarca che i video non erano quelli definitivi, che la meraviglia sta tutta nel vocio di sottofondo scatenato ha dimostrato una scarsa lungimiranza strategica. Ricordiamoci che per costruire una buona reputazione si possono impiegare anni, ma per incrinarla è sufficiente una sola campagna.


Simona Ruffino è brand strategist & neurobrand specialist, autrice del libro Neuromarketing etico pubblicato da Hoepli in questi giorni

 

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