Sei davanti alla porta e leggi: tirare. Quella è una porta. Quelle sono lettere. Una T. Una I. Una R. Una A. Una R. Una E. tirare. Benvenuto sulla porta della lingua tedesca. E tu cosa fai? Spingi.

È il 20 settembre 1992. Sei in Germania da un mese. La porta è quella della tua scuola, oggi è il primo giorno. Indossi i tuoi jeans nuovi. Tua madre te li ha comprati perché non voleva che andassi alla scuola tedesca con i pantaloni rovinati. I jeans le sembravano troppo cari. Tua madre non ha il permesso di lavorare e avete pochi soldi. O quelli o niente, ti sei impuntato. Era una carognata da parte tua, e lo sapevi, e anche tua madre lo sapeva, ma i jeans te li ha comprati comunque.

Il banco alla tua sinistra è occupato da un finlandese. Il finlandese si chiama Pekka. Pekka ha disegnato una storia animata sul suo quaderno. Sembra proprio bella. Per la verità Pekka potrebbe anche tornarsene subito a casa, non venire mai più a scuola e passare la vita a disegnare libretti animati.

A destra c’è Dedo. È jugoslavo come te. Prima che arrivi l’insegnante, Dedo grida in via precauzionale. Per un certo periodo Dedo alternerà grida a mutismo. Poi la faccenda delle grida migliorerà. Nessuno dei tuoi compagni di classe è di qui. Nessuno parla tedesco. Fantastico, tutti si capiscono giusto un pochino e nessuno è tenuto a spiegare alcunché, visto che nessuno è in grado di farlo. L’insegnante di geografia vi mostra alcune cartine sulle quali indica fiumi, montagne, boschi e città, e tu scrivi Reno, Feldberg e Odenwald, e l’insegnante dice: «Io sono nato a Mannheim. Pekka, tu dove sei nato?». E Pekka risponde: «Nell’Odenwald».

Per la nuova scuola tedesca un nuovo paio di jeans, dunque. Nuove sono anche le regole del gioco della lingua e della maggior parte dei giochi. Nuova è l’assenza di papà. Papà è rimasto a Višegrad. Tu e mamma passate ore e ore nella cabina telefonica che rimanda il segnale di occupato. La voce di papà è interrotta da un continuo schiarirsi la gola alternato a silenzi. Alla domanda più importante non ha risposta: quando pensi di raggiungerci?

Incidi il tuo nome e la data sul giallo della cabina telefonica. 1.10.1992.

Passano sei mesi prima che papà arrivi.

«Come stai?» chiedi.

Lui ti stringe a lungo. Non è cambiato, soltanto i capelli sono più lunghi. Racconta poco. Dice che a Višegrad la situazione era tranquilla. Negli ultimi tempi. Che nonna sta bene. Considerate le circostanze. Quali siano concretamente le circostanze non lo dice, il che non si può certo definire rassicurante. Anche delle circostanze in cui si è procurato la cicatrice alla coscia non racconta nulla. Te ne intendi troppo poco per poter dire che sembra un foro di proiettile rimarginato. Non fai domande. Papà si è portato la sua valigia marrone. Il vostro ultimo viaggio in tre con le valigie marroni vi aveva portati sull’Adriatico nell’estate 1990.

Lingue ingombranti

La nuova lingua è piuttosto facile da invaligiare, ma abbastanza difficile da trasportare. Capisci più di quel che sai dire. Ai nastri trasportatori delle declinazioni dimentichi le desinenze, le parole tedesche sono troppo ingombranti, i casi si mischiano e la pronuncia spunta sempre, a prescindere da come sistemi le frasi.

I giorni della settimana e i mesi li hai messi in valigia da parecchio, eppure ne trascorrono alcuni prima che ti faccia degli amici. Con una lingua comune è più facile trovarne. Riesci a capire per quale squadra di calcio tifano. Olli di Eppelheim tifa per una squadra di Amburgo. Suo padre vi porta a vedere una partita a Karlsruhe.

È la prima volta che qualcuno ti invita da qualche parte in Germania. Il padre di Olli grida contro l’arbitro. Impari la parola “bruttofigliodiputtana”. Alla fine del primo tempo vi compra un Bratwurst. Canti insieme agli altri: «Siamo l’Amburgo, siamo l’Amburgo, noi tutti siamo l’Amburgo». Per novanta minuti sei anche tu l’Amburgo. La tua squadra si chiama hsv. L’hsv perde. Ti ci abituerai.

L’insegnante di geografia tira fuori cartine su cartine ed elenca regioni e capoluoghi. Chiede a Pekka quale sia la capitale del suo paese e lui risponde: «Stoccarda».

L’insegnante di geografia commenta: «Molto divertente».

Ridono tutti, persino quelli con qualche trauma. L’insegnante di geografia mi chiede quale sia la capitale del mio paese, e io rispondo: «Belgrado, Sarajevo e Berlino». Per giocare a calcio la lingua serve poco. È più importante non essere scelti per ultimi in una squadra. I jeans nuovi però si strappano sul ginocchio e sulle prime mamma dà di matto, poi si mette a piangere, poi rammenda i jeans. Tu nel frattempo sei seduto sul divano e prendi una mosca. Il divano l’avete recuperato dai rifiuti ingombranti e il panico della mosca ti fa il solletico nel pugno. La lasci libera, per il momento.

All’improvviso succede che ti innamori un pochino. Susanne ha lunghi capelli biondi e ben curati sui quali è posata una delicata farfalla rossa, un fermaglio. Susanne non parla serbocroato né inglese. Il tuo tedesco è ancora troppo zoppicante per permetterti di essere davvero innamorato. Come si comunica? Be’, si scrollano le spalle in risposta a una domanda e ci si tiene per mano.

«Che musica ascolti?».

«Sì, musica bella!».

Ventiquattr’ore dopo Susanne dice: «È finita».

«Finita cosa?» chiedi.

«Tra noi, è finita. Non voglio più uscire con te».

«Uscire, sì! Dove vuoi andare?»

«No, no. Ti sto lasciando. Ma grazie, finché è durato è stato bello».

«Al castello?».

Impari “tenersi per mano” e “bacio di addio”.

Participi passati. Hai consegnato giornali a domicilio. Hai “prenduto” confidenza con i vicini. Hai imparato la parola “spiccioli”. Dopo sei mesi qualche errore con i participi ti scappa ancora, ma hai deciso di usare i tuoi spiccioli per regalare a mamma un foulard tedesco made in taiwan. Mamma ha “piangiuto”.

Discorso indiretto. Mamma piange spesso. Il più delle volte non sai se per felicità, tristezza o paura. Lavora in una grande lavanderia. Dice che al lavoro fa talmente caldo che le cuoce il cuore.

Racconti la tua prima barzelletta in tedesco. Non ride nessuno tranne Pekka, ma evidentemente non dipende dalla lingua bensì dal fatto che non sei bravo a raccontare barzellette. Pronomi relativi. Un paese di cui comprendi la lingua non è più necessariamente il tuo paese, ma è meno relativo. Avete un piccolo televisore. La sera fanno vedere di sfuggita anche la tua guerra. Cambi canale, c’è Die Hard con Bruce Willis. Bruce Willis parla tedesco. Lo capisci abbastanza bene. Bruce Willis è conciato piuttosto male. «Yippy-ya-ye, pezzo di merda» dice, e lotta per salvare la sua famiglia.

Piuccheperfetto. Storia con il signor Gebhard, tema nazionalsocialismo. Tu ti alzi, anche se in Germania non bisogna alzarsi quando si vuole parlare, e anche se non si dovrebbe ti metti a gridare: «Morte al fascismo, libertà al popolo!».

Futuro. Lezione di politica. Dici: «Il capitalismo si autodistruggerà».

Sei di nuovo davanti alla porta. Non noti più nemmeno che c’è scritto tirare. Non c’è niente di meglio che saper fare qualcosa. Pur riempiendosi, la valigia linguistica è diventata più leggera. I numerosi vocaboli, le regole e le conoscenze ti permettono di intraprendere un nuovo viaggio: cominci a scrivere storie.

Origini di Saša Stanišić è pubblicato in italiano per Keller editore, con la traduzione dal tedesco di Federica Garlaschelli

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