Non era un pugno per modo di dire. Ha fatto rumore, come quelli di Terence Hill e Bud Spencer, ma senza l’aggiunta di effetti sonori. La collusione fuori programma di Will Smith con Chris Rock è stato un diversivo prezioso.

Ha consentito ai cervelli di chi resisteva al sonno davanti alla diretta tv degli Oscar di interrogarsi oziosamente sulle recondite ruggini tra i due, di valutare se l’infelice ironia di Chris Rock sulla calvizie da alopecia di Jada Pinkett Smith, che accompagnava il consorte a conquistare la statuetta, poteva essere una provocazione sufficiente o se invece ci fosse qualche incidente pregresso.

Si è potuto fantasticare sulle passate esperienze di set della signora Smith con il team comico capitanato da Chris Rock. Sostanzialmente, è stato un pretesto per assentarsi da quanto si consumava malinconicamente sul palco.

I premi

Perché al Dolby Theatre è andato in scena un Festival di Sanremo da annate cinquanta. Lacrime, famiglia e canzonette, coronati da un correttissimo applauso finale col linguaggio dei segni per la suprema statuetta a Coda - I segni del cuore.

Coda è un acronimo per Children of Deft Adults. Il più bel film del 2021, secondo l’Academy, è il remake americano di un film francese sulla figlia udente di una famiglia non udente. Perché disturbarsi a scovare idee nuove? Rifare roba non tua, se vellichi i sentimenti, paga con gli interessi: giustifica altri due Oscar per l’attore non protagonista e la sceneggiatura non originale. La terza statuetta sembra uno scherzo.

Smentiti i rumors su un intervento di Zelensky via zoom, il problemino Ucraina è stato accantonato con un veloce cartello nero invocante solidarietà e silenzio. Per un minuto. Delle 12 candidature per Il potere del cane Jane Campion si porta a casa solo l’Oscar per la regia.

Diciamola tutta: nelle cinquine allargate non c’erano capolavori da strapparsi i capelli, ma di sicuro la neozelandese sa il fatto suo. Dune monopolizza le statuette tecniche, sei, ammesso che montaggio e colonna sonora vadano considerati premi tecnici e non scrittura integrante di un film.

A ogni buon conto sono stati esiliati alla periferia del palco ufficiale, per ‘snellire’ lo show. Perché gli Oscar in tv non li guarda più nessuno, e devi rincorrere l’audience con qualsiasi mezzo. Poche briciole sparse, il resto è silenzio. Ma l’hanno visto i votanti dell’Academy un film come Licorice Pizza? Lì almeno si respirano stile e invenzione. E gli è sfuggita la sceneggiatura di Don’t Look Up? Lì almeno si respira ironia intelligente.

Ma è chiaro che il nuovo corso valuta i film sul numero di kleenex utilizzati: vince Kenneth Branagh per la sceneggiatura originale di Belfast, convenzionale ma ‘strappacore’. Per darsi un tono cinefilo, l’Academy si rifa premiando Drive My Car come miglior film straniero.

Il mio cuore non batte tricolore per forza, non mi straccio le vesti perché Paolo Sorrentino non ha fatto il bis, ma appartengo a quella incolta minoranza che sotto la valanga verbosa del film giapponese ha boccheggiato.

Nel 1968 alla Mostra di Venezia il Leone d’oro è andato a un film di Alexander Kluge dall’enigmatico  titolo Artisti sotto la tenda del circo : perplessi. Gli artisti c’erano, la tenda del circo era il Dolby Theatre e la perplessità è, più che lecita, salutare.

A Hollywood tira aria di retromarcia, di riflusso nello stantio, con Jessica Chastain premiata per la recitazione sopra le righe di Gli occhi di Tammy Faye e Will Smith miglior attore piangente, che celebra la devozione dei Pater Familias. È un’opprimente riscossa dell’America tradizionale e dei suoi valori. 

La traballante poltrona di David Rubin, presidente dell’Academy, probabilmente naufragherà dopo uno show che ha tamponato senza successo i dissensi. Hans Zimmer, Oscar per la colonna sonora di Dune, ha disertato polemicamente il palco di serie B. Non solo i premi, anche la cucitura della serata viaggiava random.

Canzoni, canzonette e canzoncine, con lo spettro di Sanremo in agguato, inframmezzate da una valanga esiziale di anniversari: i 60 anni di James Bond, i 50 del Padrino, i 28 di Pulp Fiction, le candeline di Cabaret e di June.

Un amarcord sterminato, con relativa parata di icone. Il passato cannibalizza il presente: è un de profundis del cinema? Il paradosso è che invece si glissa sull’Oscar per l’attrice non protagonista, Ariana De Base, sessant’anni esatti dopo che il premio andò a un’altra latina, Rita Moreno, per lo stesso ruolo in West Side Story. Rita Moreno era in sala, meritava un ricordo.

I Golden Globes sono franati sotto il peso di svariati peccati, che solo in parte riguardano la non-inclusione delle minoranze. Ma anche gli Oscar sono un fortino assediato da malumori crescenti. Sean Penn, che aveva messo l’aut-aut sull’intervento di Zelensky, non è il solo a giurare ostilità e boicottaggio.

Non si riesce nemmeno a godere perché per il secondo anno consecutivo trionfa il film di una regista donna, Sian Heder. Si può festeggiare solo se insieme al sesso storicamente emarginato vince la qualità.

Apple Tv produttrice batte Netflix e Amazon: ormai è solo guerra tra piattaforme. La comunità dei sordi scavalca, metaforicamente, le Paralimpiadi dell’audiovisivo e vince le Olimpiadi. Cosa bellissima e gratificante, sul piano umano: ma gli Oscar, nelle intenzioni, non dovevano premiare il cinema ?

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