C’era una volta Panorama. Avrebbe potuto essere questo il titolo del libro arrivato da poco in libreria sulla storia del settimanale fondato nel 1962 che portò in Italia un modo nuovo di fare giornalismo, meno paludato e tronfio, tenacemente legato ai fatti, presentati senza fronzoli e svolazzi, con un linguaggio tanto semplice e stringato quanto preciso e studiato.

Quel linguaggio e quel tipo di informazione fecero rapidamente scuola, al punto da condizionare le altre testate sia periodiche sia quotidiane, costrette ad adeguarsi.

Da questo punto di vista Panorama fu davvero il Settimanale che cambiò l’Italia come recita il titolo autentico del ponderoso volume (530 pagine, 25 euro) edito da Faam (Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori), l’istituzione guidata da Luca Formenton Macola con il proposito di preservare la memoria degli editori, i Mondadori appunto, che vollero quel nuovo periodico e lo aiutarono a crescere fino a che divenne plausibile all’inizio degli anni Novanta del secolo passato il raggiungimento del traguardo di un milione di copie vendute a settimana.

Panorama fu una favola bella nel mondo dell’editoria italiana nel secondo Novecento, però non una fiaba a lieto fine. Stefano Brusadelli, che fu uno dei giornalisti del Panorama degli anni d’oro e che è il curatore del volume, ha voluto fissare una data, il 1994, considerata come lo spartiacque nella storia del settimanale. Il 1994 è l’anno del berlusconismo trionfante, il tempo in cui Silvio Berlusconi diventa capo del governo dopo aver vinto anni prima il lungo braccio di ferro con Carlo De Benedetti (editore di questo giornale) per il controllo della Mondadori e soprattutto di Panorama.

Il trauma della discesa in campo

In quel preciso momento Berlusconi per Panorama non è più soltanto uno dei tanti editori «non puri», cioè un imprenditore che come altri in Italia somma i suoi affari in altri campi a quello del possesso di uno o più giornali. Ma diventa una cosa diversa e molto più ingombrante: il capo di un partito vincitore delle elezioni che legittimamente guadagna palazzo Chigi. Per Panorama che per lunghi anni sotto la testata aveva stampato il motto «I fatti separati dalle opinioni» quella novità è traumatica, non tanto per le idee e la linea politica dell’editore-capo del governo, ma proprio per la sovrapposizione delle due figure. Detto in termini semplici Panorama non è più Panorama.

Per rassicurare e forse anche per evitare prevedibili contraccolpi, soprattutto in redazione, Berlusconi fece sapere in giro che non avrebbe spostato nulla, neanche le piante nei corridoi. E per certi versi all’inizio fu anche di parola, ma da allora in poi la storia di Panorama diventa inesorabilmente un’altra storia. Tutti i giornali cambiano, ovviamente, si evolvono o involvono a seconda della proprietà, delle circostanze e delle capacità di chi li dirige, di chi li organizza e di chi li scrive, ma nel caso di Panorama il cambiamento non era fisiologico, era ontologico, riguardava l’essenza.

La transizione non fu fulminea, ci volle tempo perché una realtà prendesse il posto dell’altra, ma a distanza di anni se un lettore avesse preso in mano una copia del Panorama di prima e una copia del Panorama di dopo avrebbe colto al volo l’enorme differenza.

«L’autonomia non esiste»

A portare il giornale in edicola, settimana dopo settimana, rimasero quasi tutti i giornalisti di prima e io tra quelli, ma al di là della loro voglia di autonomia e indipendenza, erano l’anima, il sangue, il cuore e la pelle del giornale che stavano cambiando. Ricordo un fatto del 1996, l’assemblea di insediamento del nuovo direttore, Giuliano Ferrara, che era stato anche ministro del governo Berlusconi.

Nell’aula bunker accanto al palazzo di Oscar Niemeyer a Segrate, sede della Mondadori, Ferrara, che durò solo un anno e tutto sommato date le circostanze fu un buon direttore, disse l’indicibile e ciò che altri non avevano avuto l’onestà intellettuale di dire. Disse che l’autonomia dei singoli giornalisti non esisteva, era solo una favola consolatoria; ciò che garantiva il pluralismo e la libertà dell’informazione in una società moderna e democratica era la pluralità dei giornali e della proprietà di essi. Questo era il nuovo comandamento e per Panorama fu l’inizio della fine.

Da Lamberto Sechi che da Milano, sede del giornale, si spostava di malavoglia a Roma e cercava di evitare ministri e potenti per conservare in modo maniacale l’autonomia sua e del giornale, si era arrivati a Panorama in mano a un politico e per di più capo del governo. Il giornale campò ancora a lungo, ma il piano inclinato era stato imboccato, e tuttora una pallida copia di quel che fu si trova in edicola, con un nuovo editore, Maurizio Belpietro, ex direttore di Panorama, l’ultimo che ho avuto, un professionista puntiglioso.

Nel 2018 Belpietro ha rilevato le quote di Berlusconi e famiglia, ormai stufi di avere a che fare con un settimanale spompato e perennemente in perdita, ansiosi di appiopparlo a chiunque ne avesse avuto voglia. Non si sa quale sia il prezzo pattuito, ma di sicuro la distanza del Panorama di Belpietro con il Panorama raccontato nel volume di cui si parla in questo articolo è siderale.

Lo stile Panorama

Sto scrivendo «io» con fatica, contravvenendo a una delle regole ferree del Panorama di allora e cioè che non si doveva mai scrivere in prima persona. Una regola stampata insieme ad altre in un manualetto che ancora conservo con grande affetto in un cassetto della mia scrivania, una sorta di messalino con le regole che i giornalisti avrebbero dovuto rispettare per ottenere uno stile asciutto e uniforme, lo stile Panorama, in grado di rendere il giornale un prodotto informativo unico e riconoscibile.

La filosofia alla base di quella specie di baedeker della scrittura era semplice: noi giornalisti non dobbiamo scrivere per noi stessi o per qualcuno in particolare, secondo i nostri personali gusti, per soddisfare la nostra vanità o per fare sfoggio di erudizione, ma dobbiamo scrivere per il lettore, mettendoci sempre dalla sua parte, in qualche modo al suo servizio. Cercando di capire le sue esigenze, dando per scontato nulla, spiegando in maniera semplice anche ciò che a noi sembra ovvio, ma che può non essere tale per chi ha in mano il giornale e vuole capire bene ed essere informato in maniera puntuale.

Non è il lettore che deve far fatica a leggere, sei tu giornalista che devi far fatica per accertare i fatti e poi per spiegarli in maniera chiara: questa era la filosofia di Panorama. Non c’era niente di pedagogico o di paternalista, si trattava però di un nuovo modo di fare informazione in Italia che ignorava schemi consolidati e almeno nelle intenzioni si rifaceva allo stile dei quotidiani e dei grandi periodici americani, a cominciare da Life che fu il modello del Panorama della prima ora.

In questo pezzo che sto scrivendo l’uso dell’«io» è però inevitabile perché a Panorama ho lavorato a lungo, 23 anni circa, ed è stata un’esperienza che mi coinvolge ancora, a distanza di 13 anni da quando ho lasciato la testata. Scrivere in prima persona in questo caso è inoltre anche un modo di rispettare i lettori di Domani avvertendoli che l’estensore di questo articolo, cioè io, è vittima di un piccolo conflitto di interessi essendo coinvolto anche emotivamente nelle vicende di cui si parla. Io ho anche partecipato alla fattura del libro sulla storia di Panorama scrivendo una delle testimonianze che arricchiscono il volume, appena 3.600 battute, la misura chiesta dal curatore Brusadelli che ho voluto rispettare alla virgola anche in omaggio alla precisione e al rigore del Panorama che fu.

Il volume è aperto da una prefazione di Giuliano Amato, fino a qualche mese fa presidente della Corte costituzionale, che ricorda i tempi in cui fu collaboratore di Panorama definendoli un «battesimo» che incise «profondamente nella mia vita». C’è una raccolta degli articoli più significativi di quel periodo, una storia ragionata del settimanale curata da Irene Piazzoni, i contributi di quei colleghi poi diventati direttori di altri giornali. Fino ad Andrea Monti, l’ultimo direttore prima del diluvio.

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