“And I wonder if you know how it really feels to be left outside alone when it’s cold out here”, cantava Anastacia una quindicina d’anni fa ed è curioso che io abbia riascoltato questa canzone da poco, dagli auricolari di una studentessa. Continua a risuonarmi nella testa, un ambiguo mash up tra il mio passato e il presente dell’ultimo giorno di scuola, un abisso in cui sono sprofondate – o resuscitate – tre o quattro vite. L’ultimo giorno di scuola è come “Il Giorno della Marmotta” che si ripete ogni mattina – in questo caso, ogni anno – identico al precedente, e al posto di Bill Murray ci sono gli studenti, gli insegnanti, c’è l’istituzione scolastica.

Chiunque insegni sa che non è facile tenere a bada l’entusiasmo incontenibile, per usare un eufemismo, delle ragazze e dei ragazzi che fanno il conto alla rovescia. Io, per esempio, sudo freddo. Le finestre spalancate diventano improvvisamente voracissime bocche che rischiano di risucchiare chi ha caldo. I miei vecchi mi dicevano che la testa pesa più del corpo e quindi la frase: “ALLONTANATEVI DALLA FINESTRA” che, durante l’anno, suona come fermo ammonimento, l’ultimo giorno di scuola diventa un latrato.

E quindi la frase: “NON DONDOLARTI CON LA SEDIA” che, durante l’anno, è una vibrante raccomandazione, l’ultimo giorno di scuola diventa minaccia di sciagure.

E quindi la frase: “NON SI GIOCA A CARTE IN CLASSE, È ILLEGALE” che, durante l’anno, si risolve con una pacata nota disciplinare, l’ultimo giorno di scuola rischia di trasformarsi in pena corporale.

E quindi la frase: “NON VI PICCHIATE IN CLASSE, ANDATE A SPARGERE IL VOSTRO SANGUE FUORI DALLA SCUOLA” che, durante l’anno, pronunciavo ridacchiando, l’ultimo giorno di scuola diventa una supplica.

Sudo freddo, dicevo. Il mio compito è farli uscire dalla scuola sani e salvi, poi potrò tirare un sospiro di sollievo. Il mio obiettivo è non essere accusata di culpa in vigilando, oltre che insegnare lingua e letteratura inglese. Ammetto che, talvolta, il secondo obiettivo è costretto a lasciare il posto al secondo.

La scuola finisce per tutti, ma per alcuni più che per altri.

Le classi intermedie sono generalmente felici di chiudere l’anno scolastico. Certo, dipende dal livello di sensibilità: c’è chi è più attento allo scorrere del tempo e percepisce che qualcosa sta inevitabilmente cambiando. C’è chi in classe ha costruito rapporti e sa che la libertà dell’estate equivale a ricreare un baricentro nuovo per la propria vita. C’è chi in classe si diverte, ride, vive anche gli adempimenti studenteschi con l’entusiasmo di chi è consapevole che là fuori la vita può essere feroce.

Ho visto cose che voi umani.

Ho visto studentesse chiedermi «Prof., ma lei ci arriva a prendere il gesso sul bordo della lavagna?» e poi ridere del mio analfabetismo al cospetto della lavagna elettronica. Ho visto studentesse ridere della mia paura di volare, ridere della mia ipocondria, scrivermi mentre ero a casa con l’influenza più malvagia della vita: «Allora, è morta?». Ho visto studenti abbracciarsi mentre si mandavano a quel paese. Li ho visti piangere alla fine dell’anno scolastico, alcune in modo inconsolabile. Chissà cosa mettevano in quei singhiozzi. Chissà quali emozioni spingevano da dentro e si nascondevano dietro le lacrime. Chissà quanto sono stati grati di avere un pretesto per disperarsi senza dover giustificare la loro disperazione.

Ho visto un ragazzo di prima liceo piangere davanti agli sguardi sbigottiti di due amiche e compagne di classe. Un ragazzo sempre sorridente, ai limiti della strafottenza, uno di quelli che chiacchiera, si distrae in continuazione, fa battute inopportune, non ha voglia di studiare. L’ho visto piangere ed ero esterrefatta anch’io.

Per loro fortuna esiste l’ultimo giorno di scuola, possono piangere e passare inosservati.

La scuola finisce per tutti ma per alcuni più che per altri.

Non esiste studentessa né studente che non veda l’ora di riprendersi la propria vita e di chiudere per sempre il portone della scuola. O, quantomeno, questo è ciò che dichiara.

La felicità dell’ultimo giorno di scuola per chi deve affrontare l’esame di Stato non è una felicità assoluta. La scuola non finisce davvero, e loro lo sanno bene. Finiscono le lezioni quotidiane, le interrogazioni, le verifiche scritte, i colloqui, le note disciplinari, gli ingressi in ritardo, le uscite anticipate, ma la fine vera e propria è solo rimandata.

Non è tanto l’incertezza del risultato dell’esame, è che in ogni risata, in ogni gavettone di fine anno scolastico, la felicità è sporcata dalla malinconia. La consapevolezza di una fine che affaccia sull’ignoto è inevitabile e, per alcuni, difficile da esprimere a parole. I sorrisi delle classi Quinte sono incerti, spesso mesti. Sono i sorrisi tirati di chi ha creduto di avere la vita tra le mani per cinque anni ma che solo adesso percepisce la crudeltà del cambiamento.

Ho visto un ragazzo che ha collezionato più note che voti mettersi in un angolo da solo e piangere, ho visto i suoi compagni avvicinarsi ed essere scacciati. Ho visto questo ragazzo provare a smettere di piangere mentre diceva: «Magari mi bocciassero».

L’ho visto quando pensavo di aver già visto tutto nella vita, quando pensavo di aver tutto chiaro. Invece l’ultimo giorno di scuola è arrivato e io ero impreparata. Mi sono chiesta, a quel punto, se ci rendiamo conto davvero di come ci si senta a essere lasciati fuori, da soli, al freddo. Fuori dalla scuola, in questo caso, che è la summa di ogni istituzione, è l’ultimo presidio di democrazia e cultura: è casa, è diritti, è doveri, è ingiustizia, è giustizia, è sicurezza, è punto di riferimento.

La scuola per loro c’è sempre stata e, da un giorno all’altro, non ci sarà più. Tutti noi vorremmo poter dire alle ragazze ai ragazzi che, dopo l’ultimo giorno di scuola, non saranno mai lasciati soli, fuori, al freddo.

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