C’è un libro unico in tutta la letteratura mondiale: i Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese, quello che l’autore amò di più, tra tutti i suoi; probabilmente è quello che più degli altri lo consegnerà alla sopravvivenza letteraria nel tempo futuro; di certo, fu quello meno capito, quando venne pubblicato nel 1947.

Che voleva dire, infatti, parlare di mitologia subito dopo la fine della guerra, in un paese da ricostruire, in un’epoca di dominante neorealismo, del quale peraltro Pavese fu uno dei principali rappresentanti? Anche l’autore sembra volersene giustificare, «Volentieri – scrive nell’ introduzione – si sarebbe fatto a meno di tutta questa mitologia».

Ma Pavese non poteva liberarsene perché il mito – il suo mito, di cui comprese la natura più di tanti accademici che lo studiavano – era una parte inevitabile del suo modo di essere. Se lo portava dentro sin dalla nascita: forse, sin da quando cominciò a respirare l’aria e vedere i colori della sua terra di Langhe, nei suoi autunni gloriosi, una terra di cui, e anche oggi, si percepisce quasi fisicamente l’antichissima radice contadina, affondata nei secoli e nei millenni. La stessa radice da cui viene il mito.

Lo scrisse, del resto, in una pagina del suo taccuino di appunti, pubblicato poi col titolo Il mestiere di vivere (in data 19 agosto 1946): «Perché a ogni sussulto mitico ti ritornano in mente i tronchi e il fiume e la collina con dietro la luna e la strada e l’odore di prato e di campo del tuo paese?». Già, perché? Perché (Pavese lo sentiva istintivamente) il mito impone un risveglio dell’immaginazione e un continuo, eterno ritorno a un’origine da cui non ci si potrà liberare. E perché il mito porta a contatto con zone oscure e profondissime dell’anima, che sono le stesse da cui nasce il bisogno di poesia. Quello che Pavese scoprì nei Dialoghi è che il mito può amplificare la vita psicologica di un uomo, e dare parole per raccontarla: tutto ciò che passa attraverso il mito, infatti, tende ad assumere un carattere universale, anche gli stati d’animo più intimi.

Raccontare se stesso

I Dialoghi con Leucò sono una forma di quasi-poesia: mancherebbe pochissimo a farne dei versi, ma Pavese scelse una forma di prosa ritmica, in cui spesso sono incastonate strutture metriche. Scabri, essenziali, struggenti: i Dialoghi sono un libro poetico, oltre che onirico; leggendoli si ha l’impressione di passare attraverso un sogno popolato dalle figure inafferrabili del mito greco. Pavese, più che dai gaudenti e luminosi dèi dell’Olimpo, era però affascinato dal mondo primitivo e misterioso dei Titani: figure più vicine all’ombra del Caos delle origini, più vicini, per lui, al mondo oscuro dell’anima.

Ventisette brevi dialoghi. Pavese li scriveva come venivano; si ha l’impressione di una serie di flash che si accendono uno dopo l’altro e s’inseguono per le pagine del libro, e così doveva accadere nella mente dell’autore mentre li ideava. I Dialoghi del resto sono fatti soprattutto per essere detti, molto più che per essere letti, perché l’autore li ha pensati per dare autonomia alla parola, non per raccontare una storia. Il mito è essenzialmente un racconto; ma nei Dialoghi non accade nulla, perché tutto ciò che è racconto deve ancora accadere, o è già accaduto. Se il mito porta con sé un’ondata narrativa (mythos significa infatti “racconto”), a Pavese non interessava la cresta spumeggiante delle antiche storie che si avventano su chi le ascolta, ma il suono cupo della risacca che porta con sé i sassi smossi dall’onda. Il mito – così pensava – è essenzialmente un dialogo con se stessi.  

Non gli interessava scrivere un libro di mitologia né raccontare miti; raccontando il mito raccontava se stesso. E raccontando se stesso attraverso il mito raccontava tutti. Come quando Dioniso (nel dialogo Il mistero) dice degli uomini: «Tutto ciò che toccano diventa tempo»; per questo motivo lui e Demetra inventarono i misteri, che danno uno sfondo alla morte: perché così, si dicono, «morire avrà un senso» per gli uomini. Sì, gli uomini hanno un tempo, gli immortali no: questo rende incomprensibili gli uni agli altri, e gli dei si stupiscono quando vedono gli uomini prendersi tanto sul serio e sforzarsi di dare un nome a ogni cosa, perfino ai cani, perfino agli dèi, come se ogni cosa fosse di loro pertinenza e non esistesse in sé anche senza loro. 

Sono creature così effimere che non hanno nemmeno il tempo di annoiarsi; pensano che quello che capita a loro non sia mai capitato prima. «La loro vita è tanto breve che non possono accettare di far cose già fatte o sapute», dice Circe nel dialogo Le streghe parlando di questo strano essere, Odisseo, che non ha voluto accettare l’immortalità che gli veniva offerta: non ha voluto essere un maiale, stregato da lei, ma non ha nemmeno voluto essere un dio. Incomprensibile! Ne L’isola Odisseo e Calipso discorrono, e ognuno rivendica a sé il proprio tempo, quello dell’immortalità e quello brevissimo degli uomini: «Che cos’è la vita eterna – dice Calipso – se non accettare l’istante che viene e l’istante che va?». Questa abolizione del tempo, o riflusso nel tempo non-tempo del mito, Pavese lo intuì e lo trasformò in parole.

La dea bianca

Dialoghi con Leucò, ossia Leucotea, propriamente “la dea bianca”, una delle forme che assume l’antica e misteriosa divinità femminile mediterranea. Questa Dea Bianca di Pavese non era però solo una figura mitologica, ma anche una persona in carne e ossa. La sua “dea bianca”, la Leucò che dà nome all’opera, si chiamava Bianca Garufi, una nobildonna siciliana che in quegli anni lavorava a Roma insieme a Pavese presso la casa editrice Einaudi. Fu lei l’ispiratrice di questi dialoghi; mentre li andava scrivendo Pavese continuamente li discuteva con lei e ne leggeva delle parti. I Dialoghi con Leucò sono dunque in buona parte i dialoghi con Bianca; i due si amarono e presto si lasciarono. Bianca divenne poi una delle più importanti psicanaliste junghiane d’Italia. Di certo Bianca, o meglio il modello femminile che incarnava agli occhi di Pavese, fu la donna che ispirò tante pagine dei Dialoghi: era l’immagine del femminile, che ossessionava Pavese e lo faceva passare da una relazione all’altra, alla ricerca di un amore assoluto, sempre infelicemente. Si tormentava, portandosi nel cuore antiche ferite che venivano dalla sua infanzia.

Lasciamo trascorrere poco tempo dalla data in cui i Dialoghi con Leucò iniziarono a girare per il mondo, poco meno di tre anni. Intanto, Pavese si è affermato come scrittore, ha vinto premi letterari, ha lavorato forsennatamente come editor da Einaudi e come romanziere; giusto nell’estate del 1950 gli è stato conferito il premio Strega. È nell’Olimpo degli scrittori italiani contemporanei, ha un pubblico che attende nuove opere. Ma la sua scelta, da tempo, era un’altra. «I suicidi sono omicidi timidi», scrisse una settimana prima di morire.

L’immortalità dell’uomo

Arriva una sera dell’agosto 1950. Torino è deserta, gli amici sono partiti per le vacanze, la casa editrice è in ferie, gli amori sono falliti, anche l’ultimo – impossibile – con una starlet americana. Il 26 di quel mese Cesare prende una stanza all’albergo Roma e vi si chiude dentro. Il giorno dopo viene trovato morto, dopo avere ingerito una dose fatale di sonnifero. Sul comodino, c’è un libro: i Dialoghi con Leucò. Sul frontespizio Pavese ha scritto le sue ultime parole: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi». Tra le pagine era inserito un foglietto con alcune frasi, tra cui una tratta dai Dialoghi «L’uomo mortale, Leucò, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia».

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