Pensieri in marcia per Gaza, tra rabbia e senso di scollamento

Lunedì scorso, sotto una pioggia da monsone thailandese, ho portato mio figlio all’asilo per poi unirmi al corteo per lo sciopero in sostegno del popolo palestinese. A dirla tutta prima sono andata a fare colazione in pasticceria, per rispondere alla domanda di Gassman nella Terrazza: a che ora è la rivoluzione? E come si viene, già mangiati? Alle 10, giammangiata, ho raggiunto un’amica all’inizio del corteo (o alla fine? Insomma, in coda a quelli che partivano per primi da Cadorna). Erano alcuni anni che non partecipavo a una manifestazione. Ero scesa in piazza dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin, ma lo spirito di quella giornata era diverso. Niente fumogeni o bella ciao, più discorsi istituzionali e passeggini. Stavolta invece c’era tutto quello che mi ricordavo, non era cambiato niente dalle manifestazioni della mia gioventù (e sospetto anche da quelle della gioventù dei miei genitori): da un furgone pompano i Modena City Ramblers, le signore sopra i cinquant’anni indossano orecchini etnici. L’odore dei fumogeni è sempre lo stesso, solo che adesso mi fa tossire. Ho provato un po’ di tristezza, a stare lì in mezzo. La pioggia sembrava aver fatto desistere molte persone e, almeno all’inizio, avevo l’impressione che ci fossero quattro gatti (avrei scoperto più tardi che mi sbagliavo di grosso, ma se c’è da fare una stima a spanne sono sempre la persona peggiore a cui chiedere). Non si può dire invece che l’affluenza fosse stata impedita dallo sciopero dei mezzi, tutte le metropolitane a Milano funzionavano regolarmente. Tutte tranne la M4, che è una linea automatizzata di treni guidati da nessuno. A quanto pare i robot hanno a cuore la questione palestinese più di alcuni umani. Ilaria Cucchi e Zerocalcare sugli arresti allo sciopero per Gaza a Milano: «Gestione ottusa dell’ordine pubblico» Riflettere sui mezzi Mentre camminiamo lentamente in una selva di ombrelli mescolati alla nebbia verdastra che aleggia intorno a noi come una canzone dei 99 Posse, io penso a due cose: la prima è che dopo circa quindici anni il testo di Rigurgito antifascista è ancora scolpito a fuoco nel mio cervello, mentre ho rimosso tutte le declinazioni di latino; la seconda è che so che manifestare è una buona idea, ma come al solito ho questo sospetto che non serva a niente. Non so se è per l’apparente immutabilità del fenomeno – stesse modalità di protesta di vent’anni fa, ma per problemi sempre più gravi – o perché mi sembra che dovrebbero esserci più manifestazioni, ché le ingiustizie sono tante, ma mi chiedo se non ci siano modi migliori di questo, se la rivoluzione non possa cambiare e trovare modi più efficaci per realizzarsi. La risposta probabilmente è no, soprattutto non grazie a me, che all’altezza del Piccolo Teatro (ancora a diversi chilometri dalla Stazione Centrale, punto di arrivo designato), mollo il corteo per tornare a casa a tirarmi il latte, proprio come Che Guevara. Il casino, la violenza che il giorno dopo era raccontata e strumentalizzata da tutte le parti, non li ho visti nemmeno da lontano. Ho visto le persone camminare ordinatamente in fila, declamare qualche flebile slogan, procedere con lentezza verso qualcosa che sappiamo di non poter ottenere, ma che chiedere non fa mai male. Mi sono sentita un po’ inadeguata e colpevole per ragioni che non saprei neanche spiegare. Credo ci sia un certo scollamento tra la rabbia, la tristezza, l’orrore che si prova di fronte alle notizie che leggiamo ogni giorno, e il benessere che coltiviamo nelle nostre vite private, tra le foto dei piccoli cadaveri di Gaza avvolti in teli approssimativi e la copertura per la pioggia con cui quella mattina avevo foderato il passeggino di mio figlio perché non si prendesse nemmeno una goccia d’acqua. Le parole e il contesto. Solidarietà a Emanuela Fanelli I sensi di colpa È un senso di colpa peloso, quello che mi porta a camminare in mezzo agli altri chiedendo la fine di una guerra lontana, l’obbligo morale di mettermi nella condizione di raccontare a quel bambino bello asciutto che la mamma stava coi buoni e che quando l’Italia si fermò per protestare, lei era per le strade di Milano dalla parte giusta (almeno fino alle 12:00, poi doveva tirarsi il latte). È il minimo sindacale e in quanto tale non è mai abbastanza. Alla mensa scolastica, negli anni Novanta, dovevamo sempre finire tutto quello che avevamo nel piatto, perché i bambini in Africa morivano di fame. Il nesso logico era debole, ma lo spirito resta quello: cosa possiamo fare, se non finire il piatto? Cosa ci resta, se non un coro di voci sotto la pioggia? Forse i vetri spaccati della Stazione Centrale sono la risposta a queste domande, non fosse che forse non serve a niente nemmeno quello. Fossero state almeno le vetrine di Montenapoleone, Milano allora avrebbe preso nota dell’evento. Invece martedì è iniziata la Fashion Week, e la città è andata avanti a passo sostenuto, riscrivendo grossolanamente la storia, voltando pagina più in fretta che si può. E anche i robot, con un po’ di amarezza, sono tornati al lavoro. Gli anni Ottanta sono stati cancellati. E Milano non ha più un’anima