Cambiano i colori delle zone d’Italia, riaprono esercizi commerciali e di ristorazione, mentre le chiese, bene o male, sono rimaste aperte molto più di altri spazi in cui magari non ci si assembra, ma quantomeno ci si raduna. Sono luoghi, le chiese, in cui specie nella primavera 2020 il contagio si è diffuso, attraverso strette di mano e condivisione degli spazi. Come i bar. Ma c’è qualcosa che hanno in comune?

Condannate il caffè

Il caffè non sempre ha trovato buona accoglienza sulla tavola dei cristiani. In numerosi trattati dedicati al digiuno quaresimale o all’astinenza le proprietà eccitanti e stimolanti della nera bevanda furono guardate con sospetto, se non con robusto biasimo. Quando iniziò a diffondersi nell’Europa moderna, il caffè fu quale prodotto demoniaco. Come tante bevande, come tanti cibi sconosciuti stimolò prima di tutto reazioni spaventate, anche tra il clero. A fine XVII secolo, il gesuita francese Honoratus Chaurand destinò ai propri superiori una lunga lamentela per denunciare il comportamento di molti confratelli, per i quali l’abuso di caffè, cioccolato e tabacco si era introdotto nella quotidianità della vita comunitaria. Forse esagerando almeno un po’, scrisse che erano in centinaia, giovani e vecchi, sani e malati, a bere caffè senza limiti: uno, due o tre al giorno, con o senza zucchero. Agli eccessi nel bere si accompagnavano spesso comportamenti chiassosi, giochi e schiamazzi destinati a violare la regola del silenzio. I giovani del noviziato, se già non li conoscevano, apprendevano da altri studenti (o addirittura da maestri) i modi di prendere il caffè e l’uso delle suppellettili che ne ornavano il servizio (tazze, macinini, coppe).

Buttavano via il proprio tempo, buttavano via i propri soldi. C’era chi credeva nelle virtù curative del caffè e per questo medici corporali e spirituali (dottori e confessori) concedevano licenze, a manica larga. Chaurand puntualizzava: al presunto ammalato andava intimato di consumarlo chiuso nella propria stanza senza farsi vedere da nessuno e senza vantarsene. Non era certo il caso di generare invidie! E in quel “presunto” si celava neppure troppo facilmente il sospetto che in tanti fingessero qualche malessere per guadagnarsi, tra artifizi e raggiri, il vantaggio di sorseggiare una fumante tazzina. Non pare che la rimostranza del gesuita francese abbia cambiato alcunché. Mutati i tempi, nessuno condanna più il caffè, almeno, nessuno lo mette all’indice come tentazione maligna.

Condividete il caffè

Negli ultimi decenni, soprattutto nelle chiese cristiane (più protestanti che cattoliche) degli Stati Uniti l’ora del caffè ha incontrato una notevole fortuna, tanto che le chiacchierate post-celebrazione intorno a una caraffa di american coffee risaltano come momento preferito di condivisione del tempo, come anche di accoglienza dei nuovi membri dell’assemblea.

Non si tratta di andare assieme al bar, ma di sostare negli spazi appositi approntati da persone attive nella comunità, preposte proprio a organizzare al meglio i momenti di scambio e mutua conoscenza. Con spirito imprenditoriale, qualche congregazione ha persino organizzato dei negozi di caffè all’interno della chiesa, modello Starbucks, inventando anche dei nomi simpatici. Una chiesa di Chicago aveva scelto Café Eutychus, richiamando la figura di Eutico, un giovane citato negli Atti degli Apostoli perché addormentatosi durante un sermone, troppo lungo, di Paolo. Finì bene, la storia di Eutico, che pur caduto dal terzo piano e dato per morto fu miracolosamente sanato dal futuro santo.

Poiché oggi i miracoli non sono all’ordine del giorno, meglio affidarsi alla caffeina per resistere alle prediche troppo lunghe. L’irrompere del Covid-19 ha cambiato tutto. La sospensione dei servizi di culto, la loro limitazione, il trasferimento online in diretta Facebook ha cancellato l’abitudine. E i frequentatori delle chiese ne sentono la mancanza. Ve li ricordate gli aperitivi virtuali su Zoom o Meet? In varie congregazioni statunitensi ci hanno provato con il caffè del dopo messa.

Come gli aperitivi, all’inizio ha funzionato, ma in seguito ci siamo stancati tutti del virtuale, di qua e di là dell’Oceano, e i caffè sullo schermo hanno chiuso.

Qualcuno ha affermato che il loro punto di forza era potersi scegliere la qualità di quanto si beve e per accompagnare si mangia: a casa propria lo spazio gourmet può essere più raffinato di quello della sala o del cortile parrocchiale. Di contro, vi è chi la colazione non se la può permettere e proprio a fine messa la trova, o la trovava.

Prevediamo il caffè?

E adesso? Si potrà ripartire? Possibile che l’abitudine si diffonda anche in Italia?

Prima o poi, senza dubbio si potrà, qualcuno oltreoceano lo ha pure già fatto.

Servirà tenere le distanze, stare attenti a non mescolare tazze e bicchieri, versare con la mascherina, togliere di mezzo i vassoi con i biscotti toccacciati da troppe mani. Prima o poi si potrebbe divulgare anche in Italia, dove forse la parte della popolazione abituata ad andare alla messa potrebbe avere perso la pratica.

C’è chi lo teme e pensa si debbano trovare nuove vie. Interruzioni, sospensioni e limitazioni hanno profondamente cambiato le abitudini dei fedeli.

Creare occasioni di incontro sul sagrato potrebbe essere un’idea. Per molti bar la coincidenza di avere una chiesa vicino, soprattutto in decenni passati, ha rappresentato una fortuna commerciale.

C’è chi per definire le conseguenze di Covid-19 per i praticanti ha parlato di “crisi spirituale” (per esempio Michelle Boorstein sul Washington Post).

Chissà che per aiutare a farci i conti non possa essere chiamata in aiuto un’antica bevanda un tempo condannata come demoniaca.

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