Ricordo quando tutto è cominciato, quei viaggi strani nella pianura fra le case affogate nel silenzio della nebbia, e ho ancora davanti agli occhi le prime luci del giorno, lungo quelle strade senza vita, perché c’ero ogni volta solo io che andavo al mio lavoro di rianimatore negli ospedali di Lodi e di Codogno. Mi capitava di incontrare qualche posto di blocco e sentivo le sirene che urlavano. Nient’altro che questo. Era come viaggiare in una immensa, surreale prigione, svuotata della gente e dei rumori.

Adesso è tutto diverso. Quando esco al mattino presto dalla mia casa, a Pavia, sento i bambini che urlano e le mamme che li chiamano, faccio le code agli incroci e la nebbia si scioglie all’orizzonte. Forse siamo tornati normali. Ma io sono un medico, e la normalità è un’altra cosa. Stamattina è morto un mio paziente, ucciso dal Covid. Aveva 70 anni, però era sanissimo, non aveva mai avuto niente. In pratica aveva un fisico da cinquantenne. S’era beccato il virus, l’abbiamo messo in terapia intensiva, ha lottato per uscirne e poi non ce l’ha fatta.

Ogni morte per un medico è una sconfitta, come dice il Doc che interpreta me stesso nella serie tv. Io sono il Doc di Lodi e Codogno, nella trincea anti Covid della prima, infernale fase dell’epidemia. E per tutti noi la sconfitta, qualunque sconfitta, non può essere la normalità.

Due mondi

Oggi però succede questo, che la metamorfosi bulimica del virus, consegnandoci cifre ancora spaventevoli, ha sdoppiato la realtà in due mondi che sembrano quasi estranei fra loro, quello degli ospedali e l’altro della vita fuori, di tutti i giorni. È come se la gente, per una forma inconscia di sopravvivenza, avesse deciso di isolare in un luogo, e solo in quello, l’incubo del male, come se fosse una cosa che riguarda esclusivamente i malati e gli sfigati che li devono curare.

È cambiata anche la percezione verso noi medici, che non sono più gli eroi, ma i soldati che vanno in guerra, e se tu odi la guerra non importa più che questi in realtà combattono per difenderti. Ora, io agli eroi non ci credo: esistono persone serie che compiono il proprio dovere e codardi che lo sfuggono. Allora, davanti alle file di bare viste in tv, eravamo quelli che ti salvavano.

Ora è come se ci fosse un rigetto. È una reazione normale verso qualsiasi forma di epidemia. Manzoni l’aveva descritta per raccontare la peste del Seicento: «Nelle piazze, nelle botteghe, nelle case, chi buttasse là una parola del pericolo che motivasse la peste, veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo». Ma il Covid non è sparito, non è chiuso negli ospedali.

La finalità del virus è quella di entrare nelle cellule di chi ha poche difese per replicarsi e ora sappiamo che la sua porta d’entrata sono le cellule più vicine al cervello, quelle olfattive e che sugli immunodepressi ha enorme facilità d’ingresso. Significa che molti di noi possono essere contagiati. Ora è vero che la situazione in certe zone è migliorata, come la nostra ad esempio, che era stata la prima area di pericolo. Il virus è diventato più dannoso in territori che erano stati meno colpiti nella prima fase.

I nostri errori

Però, se è vero che noi abbiamo un sistema sanitario di cui andare fieri perché ogni volta che c’è un problema risponde «presente» senza chiederti dei soldi, è altrettanto vero che paghiamo un handicap strutturale che ci ha indebolito rispetto ad altri paesi. Noi abbiamo commesso un errore grave, abbiamo centralizzato il virus, e questo perché 30 anni di politica sbagliata e di tagli esagerati hanno penalizzato il nostro sistema. Non puoi pensare di risolvere le cose in sei mesi. A gennaio 2020 la Germania aveva quattro volte i posti letto di terapia intensiva che avevamo noi.

L’altro problema è che in realtà abbiamo capito poco: e questo riguarda tutto il mondo. Sappiamo qualcosa in più, che serve il cortisone e l’eparina, che è un anticoagulante, perché il virus causa infezioni e microemboli. Il cortisone combatte le prime, l’eparina interviene sulle trombosi. Ma questi aiuti non bastano nei casi più gravi. L’altra cosa sarebbe capire bene chi lasciare a casa e chi no. Noi abbiamo creato unità di medici che vanno a casa dei pazienti, una cabina di orientamento che ha dato risultati così positivi da aver suscitato l’interesse anche dell’Università Cattolica e dell’Asl di Roma, per esempio. Queste squadre si chiamano Usca, Unità speciali di continuazione assistenziale, e sono dei gruppi che io ho teorizzato da anni, venendo solo adesso finalmente ascoltato.

Il concetto è quello del medico che si sposta a casa dei malati. Il mondo degli ospedali e quello del territorio non si sono mai parlati. Io attraverso la mia esperienza di paziente amnesico, ho capito da tempo che il futuro non è negli ospedali, anche se è ovvio che saranno sempre utili, ma è sul territorio. Noi abbiamo ideato un sistema di monitoraggio che attraverso un braccialetto digitale ci permette di controllare il malato a casa, con un infermiere che lo interroga ogni giorno per capire se può restare lì o se bisogna ricoverarlo. Questa è l’applicazione di medicina proattiva o di iniziativa. È un moto a luogo, emotivo, ma anche professionale: io medico mi muovo verso il paziente, io vado da lui e non è più lui che viene da me.

Tutto questo serve per evitare che i casi meno gravi possano peggiorare, come è successo purtroppo nella prima fase. Ma i numeri oggi, a un anno di distanza, sono rimasti ancora terribili e questo ci deve far riflettere. È sbagliato abbassare la guardia. L’unica cosa che potrà portarci definitivamente fuori da questo incubo è il vaccino.

Vaccini, virus e ricordi

E alla fin fine qual è il senso di questa scoperta salvifica? Che dobbiamo consegnare all’organismo una memoria che gli permetta di combattere il virus. È attraverso la memoria che lo vinci. Detto da uno che la memoria l’ha persa, come raccontato da Luca Argentero nella fiction rai, questa certezza ha per me un significato particolare. Noi siamo quello che ricordiamo. Vale anche per le nostre cellule. Ci salviamo se riusciamo a ricordare. E il vaccino questo è. I no vax sono gente che non vuole ricordare, e noi siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo, come diceva José Saramago: «Senza memoria non esistiamo e senza responsabilità non meritiamo di esistere». Ma un amnesico sa benissimo che cos’è la memoria e quanto conti nella nostra esistenza quel suo museo di forme incostanti, o quel mucchio di specchi rotti, perché anche in quelle immagini sbrecciate è rimasto qualcosa di te che ti spiega quello che sei.

 

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