Per gli antichi la meraviglia – thauma, che è sgomento e motore di domande, terrore e ammirazione – è il principio della filosofia: nella Metafisica Aristotele, ricostruendo le origini dell’indagine filosofica, la fa risalire allo stupore che spinge a cercare e ricercare le cause delle cose, il principio alle spalle dello spettacolo cui assistiamo vivendo. Il teatro, fin dall’antichità è il luogo deputato all’esercizio dello sguardo, come rivelano le etimologie; dello sguardo e della tensione a farsi intrattenere, cogliere alla sprovvista, avvincere, attrarre dalla rappresentazione di quel che accade.

Si raccontano impressionanti reazioni, di sgomento, di partecipazione, di entusiasmo, del pubblico ateniese che in un rituale laico collettivo assisteva alla messa in scena delle grandi commedie e tragedie che ancora oggi vediamo rappresentate. Ma che ne è di quel potere, oggi che la tecnologia ci offre mille e una possibilità di prevenire lo stupore, di schermarlo attraverso previsioni e app che ingannino ogni attesa, oggi che abbiamo, almeno sulla carta, ogni mezzo per evitare di lasciarci cogliere con la guardia abbassata?

Lo chiedo a Stefania Lo Giudice, curatrice della sezione Kids & Family del Romaeuropa Festival, che ha a che fare da sette anni con il pubblico più spontaneo, imprevedibile, esigente che ci sia: i bambini e le bambine, spettatori e spettatrici di questa rassegna che nei fine settimana, per permettere alle famiglie e ai genitori che lavorano di raggiungere a Roma lo spazio dell’ex Mattatoio, mette in scena spettacoli di teatro contemporaneo pensati per parlare a un pubblico giovanissimo.

Così, ad esempio, Roberto Abbiati costruisce il suo Moby Dick in una stiva dalle cui pareti di legno si animano storie e personaggi; Teatro Necessario mette in scena una “giostra” musicale; la compagnia di Nuovo Circo QuattroX4 sceglie come interlocutore Italo Calvino; ci sono poi spettacoli internazionali, con il focus sulla creazione olandese nell’ambito di Futuro Presente (programma di cooperazione con l’ambasciata dei Paesi Bassi in Italia e il Performing Arts Fund NL), in cui l’interazione fra macchine sceniche e immagini porta il giovane pubblico a dialogare all’incrocio di diversi linguaggi artistici come ne Il Guardiano Notturno, Io ehm…io o Lucky Luuk. E spazi dedicati al gioco, che possa coinvolgere anche le famiglie, allargandosi in esperienza collettiva.

Partiamo dal tema della meraviglia: come ci poniamo verso l’infanzia, oggi, che abbiamo strumenti efficacissimi per schermare l’inaspettato?
La meraviglia è un concetto che a me interessa molto, e quando Fabrizio (Grifasi, direttore artistico del festival ndr
) ha dato il via alla rassegna, nel 2017, l’idea era quella di esplorare le potenzialità del teatro, che di per sé è meraviglia. Perché ha a che fare con un pubblico meravigliato. Questa è proprio una categoria d’interpretazione del teatro, secondo me: assumere uno sguardo diverso su quello che succede nel mondo, sulla realtà, è una cosa che nel teatro per l’infanzia viene quasi spontanea. Perché le bambine e i bambini hanno una spontaneità nel guardare alle cose…

Le nuove generazioni però crescono, fin dalla primissima infanzia, con una forte esposizione agli schermi: fra video, piattaforme on demand, eccetera, rispetto ai loro coetanei di qualche anno fa probabilmente passano molto più tempo a guardare e incamerare immagini.
Ho scoperto che c’è un nome, per queste nuove abilità così diffuse fra i piccoli e i molto giovani: li chiamano screen-agers
. Il nostro pubblico arriva fino all’ultimo anno delle elementari, al massimo al primo delle medie. Fino alla preadolescenza, insomma: sono screen-agers, abituati a vedere e gestire gli schermi di smartphone e tablet, ma devo dire che si meravigliano, e molto.

Il teatro, che è un linguaggio antichissimo, riesce quindi a mantenere anche in questo tempo il suo ruolo?
Queste nuove generazioni sono in grado di stupirsi, ma anche di stupirti: perché hanno uno sguardo molto profondo, molto tagliente. Sanno cosa vogliono vedere e cosa non vogliono, sanno persino il perché: sono abituati a selezionare. Hanno abilità e potenzialità nuove, per molte ragioni fra cui, probabilmente, anche il fatto di aver vissuto la pandemia.

Sicuramente hanno un modo diverso, rispetto ai loro coetanei di qualche decennio fa, di rapportarsi alla tecnologia e allo spettacolo, però quando li vedo a teatro sembra che tornino bambini: non lo dico in senso retorico, non dico nemmeno che ogni volta che si apre il sipario fanno ohhhh, perché non sarebbe realistico. Però nel teatro, nell’esperienza teatrale nelle sue varie diramazioni ritrovano la possibilità di mettersi in gioco. E questo è evidente quando li vedi reagire tutti insieme, riscoprendo lo stare insieme agli altri, e vivono una reazione, direi, comunitaria a uno spettacolo, diversamente da quelle a cui sono abituati nella fruizione video con cui sono cresciuti.

Stiamo parlando di un pubblico giovanissimo: undici anni al massimo, oggi, significa che una parte consistente della loro esistenza è stata condizionata dalla pandemia.
Che poi, al momento, non sappiamo nemmeno se su questi piccolini abbia fatto davvero danni: ci vorrà tempo per rendersene conto, anche se sinceramente io credo molto nell’elasticità con cui i bambini mettono in atto le loro strategie, si proteggono.

Certo, però in una vita finora durata sette, otto, nove o dieci anni, per due anni non hanno quasi vissuto l’esperienza dello stare fisicamente con altri che non fossero “congiunti”…
Già l’anno scorso, nella prima edizione, diciamo, “libera” dopo la pandemia, abbiamo visto quanto bisogno avessero di scorrazzare, di fare. Con la naturalezza tipica dell’infanzia: un rapporto spontaneo, istintivo, con il corpo e lo spazio. Io stessa mi meraviglio quando li vedo mettere in atto dei modi tutti loro, innovativi, anche un po’ assurdi all’apparenza, di esperire la realtà.

In questi sei anni di rassegna sono cambiate molte cose?
Molti dei piccoli spettatori della prima ora, sei anni fa proprio piccini, hanno attraversato un passaggio evolutivo importante nella loro breve storia: sono passati dall’essere bimbetti piccoli a ragazzini. E una cosa che mi fa sorridere è che capita che tornino a chiedere dello spettacolo che avevano visto l’anno precedente. È un pubblico che si sta formando. La rassegna nel 2017 era qualcosa di molto nuovo, molto desiderata da Fabrizio che voleva aprire a un nuovo pubblico e ha deciso di aprire al pubblico più nuovo che c’è. Noi li pensiamo proprio come spettatori: molto giovani, certo, ma con un gusto preciso, che si forma.

C’è anche in loro il desiderio di passare da spettatori a attori?
Altroché! Ci sono degli spettacoli che sono frontali, classici; altri prevedono invece una partecipazione. Sempre entusiastica. Il teatro è davvero il dispositivo più magico che ci sia. Fa cadere le barriere, rimescola i ruoli; la rassegna poi mette in gioco anche le figure di riferimento adulte, creando relazioni nuove rispetto a quelle della vita di ogni giorno.

Oggi si tende molto a “proteggere” i bambini dalle emozioni considerate troppo forti, a ovattare il più possibile la loro percezione della vita e dei suoi inevitabili aspetti più oscuri, dolorosi o spiacevoli. Ma il teatro, che sviluppa la relazione empatica con l’altro, non ha il potere di rendere superflua questa prudenza a volte eccessiva?
Sono d’accordissimo. Penso che le emozioni vissute a teatro siano un ottimo paracadute. L’educazione teatrale, musicale, artistica, secondo me è fondamentale perché apre degli spiragli di conoscenza sul mondo. Bisogna fare attenzione a trovare un linguaggio che sia accessibile, che sia il loro linguaggio, e mantenersi rispettosi di quello che loro sentono: trattarli insomma come spettatori, per quanto giovani.

La cosa più difficile che si impara da questo lavoro?
Ascoltarli senza sostituirsi a loro, mantenendo vigile l’attenzione. Cercare di allargare la loro percezione, non lasciare che si accontentino di quello che vedono. Hanno molte potenzialità rispetto alle generazioni precedenti, molti strumenti, ma anche delle cose che mancano alla loro esperienza quotidiana: abituati a tanti stimoli, per loro ritrovarsi in uno spazio e in un tempo calmo, concentrati su sé stessi, è difficile. Ma quando succede è una meraviglia.

Mi sento stranamente più ottimista dopo questa conversazione!
Per forza, è un lavoro che fa questo effetto. Una programmazione gioiosa è una programmazione ottimista; in fondo è una bella cosa, riuscire a guardare il mondo in modo un po’ più esatto.

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