Scritta di notte, in una tempesta di visioni, questa rilettura del mito continentale mette a nudo, in una riedizione tutta diversa, la sua intima struttura in versi e toglie l’articolo all’Europa per svelarne l’essenza femminile: quella di una migrante che attraversa il mare e vince la sfida. Europa come donna dunque, in un momento in cui, sull’onda di mitologie maschiliste, il dio della guerra torna a devastare il Continente e migliaia di profughi vanno a spiaggiarsi, vivi o morti, sulle nostre coste, la Grande Madre ci addita ciò che la politica non dice: il nostro destino millenario di capolinea di popoli e il nostro legame indissolubile con l’Oriente e il Mediterraneo, culla della filosofia e della democrazia. Essa ci sprona a mettere più Europa nel nostro atlantismo, se non vogliamo essere spazzati via dal vento della Storia.

A dare una spinta importante a questo libro sono state le conseguenze del referendum inglese sulla Brexit. Era la primavera del 2017, quando ricevetti una telefonata dal Galles. All’altro capo del filo c’era Piero, un caro amico, sensibile cultore di cose antiche, esperto marinaio e armatore di Moya, una delle vele più antiche del Mediterraneo, che a Cardiff insegnava greco e latino in un college. In preda all'emozione, disse che con quella scelta gli inglesi rischiavano di «sputare sul corpo della loro madre», e che quello era il momento di ripetere il viaggio di Europa e documentarlo, per mettere la Gran Bretagna «davanti all’evidenza del suo errore e al cospetto di una storia che contiene i valori fondanti dell’Unione».

La telefonata mi raggiungeva mentre ero proprio in Libano, l’antica Fenicia, il luogo stesso del rapimento di Europa. Ero lì con un maestro di musica per selezionare giovani violinisti da aggiungere all’orchestra europea cui prestavo la voce narrante. Lo scopo di quella sfida sinfonica era ricordare agli occidentali che la loro progenitrice, al pari di Cristo e dei testimoni delle altre religioni monoteiste, veniva da Oriente. Una coincidenza che mi tolse ogni scusa per rimandare il viaggio.

Ricucire mondi

E così, poco tempo dopo, in un anno segnato da tremendi naufragi di migranti, eravamo già in mare con la vecchia Moya. A vele spiegate viaggiammo fra Asia e Occidente, come per ricucire lo strappo tra i due mondi, cicatrizzare una ferita che si apriva e oggi, ahimè, pare destinata a sanguinare chissà per quanto ancora.

In quella anabasi, Europa ci mandava segnali, e noi eravamo lì per cercarla. Nel mio cuore essa assunse lo stesso volto indimenticabile e lo stesso corpo di una ragazza siriana che pochi mesi prima avevo visto sbarcare a Porto Empedocle da una nave di soccorso. Ma poteva essere una profuga qualunque. Libica, curda, bosniaca, afghana.

Fu una traversata memorabile. La bellezza della barca, la ciurma multilingue, la bandiera britannica a poppa provocatoriamente abbinata a quella stellata, tutto faceva sì che ogni incontro diventasse un dialogo sul destino dell’Unione. E il mito, intrecciandosi con i disastri dell’attualità – clima impazzito, guerre, migrazioni, turismo di massa –, costruiva come per magia un racconto d’avventura in bilico fra il presente e i millenni.

Così, l’avventura, miglio dopo miglio, si fece sempre più pagana e ricca di metafore, in un mare pieno di bellezza e tragedia, divinità e naufragi, finché il viaggio reale generò un viaggio immaginario ricco di visioni, imponendogli il ritmo quasi inevitabile del verso.

“La grande vela rossa, come andava / in quella prateria di bianche schiume! / La prora scavalcava i meridiani / con balzi siderali, ad ali aperte, / tracciando un’ostinata ipotenusa / in un abbacinante controluce”. E ancora: “L’aratro della prua faceva a pezzi / le zolle dure del Mediterraneo”. … “Vedemmo isole intere sollevarsi / e accendersi metalli al calor bianco. / Caldiere senza sonno vomitavano / lingue di succhi gastrici mefitici, / zampe di brontosauro si immergevano / tuonando, su fondali di catrame./ Nudi ciclopi con macigni in mano / accorrevano verso un promontorio / per affondarsi, con urla selvagge”.

Pietro morì cinque mesi dopo quel viaggio visionario, poche ore dopo avermi scritto una lettera che lo rievocava, e questo ovviamente mi legò alla storia in modo ancora più intimo e fece sì che il mio capitano diventasse co-protagonista della storia, con un’identità nuova ma trasparente. “Petros il greco scriveva e scriveva / rannicchiato nel vano di carteggio. / Aveva acceso la lampada a petrolio / e il lume rifulgeva sulla bianca / pagina aperta del diario di bordo / sperduto nella notte boreale”. … “Il sole e la salsedine gli avevano / trasformato la faccia in un’icona / annerita e rugosa. La sua anima, / smerigliata fa Borea e da Scirocco, / sembrava aver raggiunto già l’essenza”.

“Inglese di adozione, con due figli / già adulti nati in barca, conduceva / da troppi anni una vita raminga / e si sentiva a casa in special modo / in quell’agglomerato di nazioni / che aveva sotterrato dopo secoli / l’ascia di guerra e stretto un’alleanza / issando una bandiera blu stellata. / Accanto all’Union Jack fissato a poppa, / l’Auriga la esibiva con fierezza / sulla crocetta o in alto, in testa d’albero. / La annodava bel salda ogni mattina / con farfalle di nodi su una sagola / e l’ammainava a sera quando Venere / chiamava, inabissandosi nel mare. / Con una cerimonia sempre uguale / la ripiegava con cura a triangoli / per deporla in un vano accanto al letto”.

Durante quel viaggio e poi, durante la scrittura, la deriva dell’Europa mi apparve sempre più evidente.

La deriva dell’Europa

“Terra madre era in mano a dei dementi / che in nome dell’orgoglio nazionale / portavano la gente alla rovina. / Si ridestavano linee di faglia, / tempeste di mercati finanziari, / diritti di ingerenza proclamati / con tweet presidenziali, sfruttamenti / di risorse; bandiere sempre nuove / su spazi scorticati dalle bombe. / Incubavano febbri tra nazioni / pronte ad alzare patetici muri / contro ogni cosa. Il ragno della Rete / contaminava il mondo di paura. / Ma il mare sonnecchiava indifferente / al suono dei tamburi ed alle marce / di sterminati eserciti nel nulla”.

In quel viaggio senza tempo fiorivano le domande: dove ti sei nascosta Europa? In quale antro, in quale anfratto, tu che sei la mia essenza, la mia fede, ma anche il mio infinito sconforto? Tu, sedimento di millenni, lingue, religioni, incubi, speranze e convulsioni, da cui è nata come per miracolo l’Idea? Come ritrovare la dignità di essere figli di una terra che, dopo avere inflitto a se stessa e alle sue colonie oltre cento milioni di morti in un secolo, ha saputo dar vita al più grande progetto di pace dell’umanità?

Povera Europa, pensavo, così frastornata e genuflessa. La parola “pace” è diventata impronunciabile. Fingiamo di non essere da anni in guerra per cento terzi, e che le armi che appaltiamo ad altri siamo pulite, non uccidano bambini.

Per secoli abbiamo rivendicato come universale il nostro diritto a emigrare e, ora che il flusso si è invertito, deleghiamo a milizie spietate la difesa delle frontiere esterne contro i più deboli, salvo aprirle ad alcuni e non ad altri in nome della convenienza. Povera Europa. Quanta ipocrisia. La comunità di valori si è dissolta, la leggenda si è persa. La bandiera stellata non infiamma più, genera sbadigli. Innominabili mercanti si sono infiltrati nel Tempio e la magnifica utopia pare già pare una rovina consumata dal tempo.

“Eu-ro – pa! Le tre sillabe scomparse, / sei lettere cadute nell’oblio, / evaporate, disperse nel vento, / ingoiate da virus senza nome, / sostituite da vane perifrasi, / schiacciate da messaggi e cinguettii / in un frastuono di registratori / di cassa, sprofondare nel fracasso / di parole insensate delle a vanvera”. Come impedire ai nostri popoli, mi chiedevo, di fare di lei il solito, comodo capro espiatorio e di smantellare dall’interno quest’ultima isola felice senza difenderla dai marosi di violenza, schiavitù e dittature che picchiano alle sue frontiere? Come proteggerla dal ritorno dei nazionalismi che corrodono come termiti l’edificio dell’Unione? Con che cosa se non col mito?

Ed ecco la figura della Dea madre venuta da Oriente che prova ridare senso alla Terra del tramonto, da sempre capolinea di migranti, specie oggi, che l’Alleanza stellata, di fronte alla guerra in casa, cammina rasente ai muri e tace quasi vergognandosi di esistere. Nulla vi è di più adatto di quella storia fiabesca, capace di toccare l’anima dei semplici.

Nulla più del mito di quella donna coraggiosa che attraversa un mare in tempesta, sbarca dopo mille peripezie e creava una stirpe nuova, additandoci la strada di un rinascimento. “La Luna non faceva che dar luce / al giusto rango nobile di lei / sull’albero dinastico del mondo. / Figli eravamo noi tutti di Europa / e del Mediterraneo attraversato / col terrore negli occhi da una donna / prescelta capostipite da un dio.”

“Separata da noi da una tendina / la Portatrice del nome celeste / si rannicchiava nel ventre di Moya / dentro uno scialle di lana scozzese. / La sua essenza riempiva l’abitacolo / sembrava dilatarsi ora per ora. / E, gravida di lei, la chiglia andava / ci investiva di un ruolo di custodia / quasi materno, inedito per uomini. / La fulgida cometa del suo nome / guidava noi Re Magi naviganti, / le mani piene di doni d’Oriente. / Noi si faceva provvista di grazia / vegliando sul suo corpo addormentato. /Al ritmo di tamburi di flamenco, / sangue andaluso pulsava in un punto / preciso del suo collo abbandonato. / La sua essenza riempiva l’abitacolo, / sembrava dilatarsi ora per ora. / Era un enigma, un abisso profondo, / passaggio, non possesso della Terra”.

In definitiva, Canto per Europa non è che la dichiarazione d’amore per una migrante vissuta migliaia di anni fa, una dea che si rifà carne nel mondo di oggi come miserabile profuga di guerra che sfugge alla prigionia in un bordello libanese e cerca la salvezza su una barca a vela di moderni argonauti d’Occidente. È il suo volto che mi sprona a difendere la mia terra in tempi in cui sbiadiscono i valori fondanti, decade la coesione e si fa sempre più flebile la difesa dei diritti.

Nel giorno del nome ritrovato, Petros, il capitano, comprende in un lampo il senso della sua patria multilingue: “… questa terra / è il miraggio di chi non la possiede, / di chi attraversa il mare con fatica. / Forse è il sogno di chi viene respinto, / non di chi l’abita, sazio, da secoli. / Da oggi sia chiamata come lei”.

E ancora: “La terraferma cercata da tanto / ricomponeva la mappa di Petros, / gridava il proprio nome al firmamento. / Il nome di una donna violentata, / di un corpo male amato alla deriva”.

L’Europa e la guerra

Ricordo bene quando per la prima volta sentii invocare l’Europa senza che l’Europa fosse capace di rispondere. Fu in Bosnia nel ’92, quando i cosiddetti mediatori internazionali si presentarono in ordine sparso e proposero ai belligeranti schemi di pace che accettavano l’idea di una semplificazione (e quindi separazione) etnica come condizione necessaria a por fine al conflitto.

La magnifica diversità della Bosnia, reinterpretata come un intralcio e non come una ricchezza, non solo accelerò, anziché frenare, la sanguinosa pulizia etnica in corso (vedi il tacito via libera al massacro di Srebrenica), ma fece sì che venissero picconati i fondamenti stessi dell’Unione, costruita sul presupposto della coesistenza fra diversi.

Il risultato di quel tradimento è che oggi due potenze sono venute a giocare col fuoco in casa nostra, e noi non siamo stati capaci di esprimere alcun tentativo di mediazione, perché non sappiamo cosa opporre alla visione monoetnica dei Russi e degli Ucraini. Ci siamo limitati a definire noi stessi in contrapposizione a un nemico comune, non in rapporto a un nucleo di valori fondanti.

Così oggi siamo sommersi da un martellamento mediatico che tace sulle responsabilità dell’occidente, occulta le macerie di alcuni e sfrutta spudoratamente quelle di altri come scenografia. Un pensiero dominante dove i fatti non contano quasi più e, spesso, nulla è come sembra; un sistema così potente da annichilire il dissenso e inibire la normale dialettica democratica.

Oggi in occidente non ci battiamo più perché l’avversario possa esprimersi ma stronchiamo il dibattito sul nascere. Rispondiamo con una docile autocensura alla paranoica censura moscovita. Un vero e proprio fascismo della Rete, che eccita legioni di odiatori professionisti e offre megafoni alla frustrazione e al rancore. Il problema dell’Europa, oggi, non è né la Russia né l’America, ma l’Europa stessa.

Non esiste a Bruxelles un organismo incaricato di coltivare e diffondere l’immagine dell’Unione. L’iniziativa di costruire un’appartenenza comune è lasciata nella buona volontà di pochi visionari lasciati soli dall’apparato. So per averlo provato di persona. Eppure il terreno è fertile. La gente ha sete di senso, di storie. La spasmodica attenzione che esprime quando le racconti il mito, denuncia il vuoto narrativo in cui è abbandonata dalla politica e dalle istituzioni.

Di fronte a un’Unione sempre più ridotta alla sua pura funzione strategica, inondati come siamo di retorica bellicista, passa a molti di noi la voglia di indignarsi per troppe cose: per i richiedenti asilo ridotti in schiavitù, per le pratiche illegali di espulsione, per il modo con cui siamo scendiamo a patti con i paesi del Nordafrica e la Turchia che ci ricattano attraverso il flusso dei profughi, o per come a dettare l’agenda politica dell’Unione oggi siano paesi ex comunisti portatori di un’idea “militare” di cittadinanza e spesso anche di un’infezione antisemita, oltre che di un concetto “balcanico” di Narod-popolo che ci inchioda alle nefandezze del Novecento.

Paesi che, sotto sotto, ci disprezzano per la nostra aperta multi-culturalità e per il nostra comoda posizione di retrovia, mentre loro combattono in prima linea per difendere la civiltà dagli Unni.

Quale avvenire

Mai si era vista nei politici di casa nostra una simile corsa a guadagnarsi la fiducia delle lobby militari o a vantare dichiarazioni di appartenenza atlantista, senza che la fedeltà all’Europa fosse chiamata in causa. È così che le nuove destre avanzano, con zero senso dello Stato, staccate dal fascismo nostalgico in camicia nera ma fedeli interpreti del pensiero unico del profitto, vassalle di un capitalismo padrone dei mezzi di comunicazione, avido di risorse e capace di sottrarsi a ogni regola. È questo che trasforma silenziosamente le nostre democrazie in stati neo-autoritari, senza che i popoli, truffati, se ne accorgano.

Oggi l’Europa, come la stessa America, per non dire la Russia, è eterodiretta da un potere multinazionale ubriaco di onnipotenza, con Google che spia le nostre vite, Amazon che governa reti fisiche e virtuali, Netflix che ingoia Puškin e Bach, imprese Over-The-Top che colonizzano il nostro immaginario e orientano da remoto il voto di milioni di elettori. Temo che ci accorgeremo troppo tardi – quando avremo spinto la Russia nelle braccia della Cina e avremo i Mongoli alle porte di casa come ai tempi di Tamerlano – che eravamo figli della stessa madre.

E allora non resta che lei, la fragile migrante fenicia in balìa del mare, a ricordarci che l’idea di spaccare il Continente è semplicemente folle e che, in mezzo a tanti miti “machisti” e a legioni di “eroi” assetati di nemici, gonfi di cartucciere e di inni alla gloria delle armi, la nostra diversità è femmina ed è più antica del dio Marte. Si fonda sul coraggio vero, quello del più debole.

Nel libro, illustrato in chiave femminile da Cosimo Miorelli, si narra che, dopo il naufragio di Moya, i figli del capitano ritrovano, nel relitto spiaggiato, alcune mappe disegnate da Petros, nascoste “in un librone color verde / che interpretava la mappa di Europa / come un corpo di donna, e minuziosi / disegni del profilo delle isole / in stile molto arabo, riletti / anch’essi al femminile…”. Al che i due ragazzi si impegnano a restaurare la barca e a rimetterla in mare.

E dicono: “Se Europa si dissolve intorno a noi, / essa rimane viva in questa barca /che l’ha cercata ostinatamente / e ha resistito a due guerre e a un naufragio”.

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