Parlare di tossicodipendenze è difficile, si oscilla fra logiche repressive e totale disinteresse, è molto raro leggere o vedere qualcosa sul consumo di droghe che porti a un ragionamento più ampio e vada oltre le nostre certezze. Questo, SanPa, la serie Netflix su Vincenzo Muccioli, riesce a farlo, qualsiasi sia la posizione che abbiamo nei confronti di quella storia.

Da spettatori siamo portati subito al centro dell’evento, quando, nel 1978, nasce la comunità di San Patrignano, una risposta (non certo l’unica come sembra dalla serie) a politiche pubbliche che non riescono a fronteggiare la marea dell’eroina che sta spazzando via una generazione: Muccioli appare a tante famiglie ma anche a tanti “drogati”, un salvatore.

Ma non solo. Vincenzo Muccioli capisce che quello del recupero dei tossicodipendenti sta per diventare un affare. Sicuramente nel suo progetto iniziale pesa moltissimo anche la sua aspirazione a diventare una specie di guru, un mistico della riviera romagnola, ma certo il business non è secondario.

Le cinque puntate della serie Sanpa raccontano di una crescita esponenziale di soldi che portano in pochissimi anni la piccola comunità a diventare un luogo ricchissimo anche grazie al supporto finanziario della famiglia Moratti e di altri ricchi e disperati genitori (Enrico Maria Salerno, Paolo Villaggio) che vedono in San Patrignano l’ultima spiaggia per disintossicare i figli. E ancora: racconta anche la nascita di un approccio alla disintossicazione diverso da quello scelto dallo stato, in comunità infatti viene assolutamente proibito l’uso di metadone o di psicofarmaci.

L’alternativa al metadone

E questo nella serie è molto chiaro: intorno a questa scelta “alternativa” al metadone nasce San Patrignano. Quello che appare è che il riminese decide, generosamente, di mettere una toppa là dove lo stato è assente. Ma lo stato non è così assente come sembra dalla miniserie: una nuova legge del 1975, che è andata finalmente a modificare quella del 1923 che regolava la gestione delle tossicodipendenze, prevede finanziamenti importanti per progetti sulla prevenzione e la cura. C’è chi se ne accorge come Francesco Cardella, editore siciliano: in Calabria, duemila persone lavorano alla sua comunità terapeutica. Fonda con Mauro Rostagno la comunità di Saman in Sicilia.

Achille Saletti è un avvocato penalista, nei primi anni Ottanta molti suoi clienti hanno grane con la giustizia per problemi di eroina. Inizia a collaborare con Saman e ricorda l’assoluta improvvisazione, lo sforzo di tanti volontari senza alcuna preparazione e soprattutto senza alcuno strumento: «Le strutture terapeutiche erano mandate avanti in modo empirico, improvvisato. In comunità per esempio non veniva dato niente, né farmaci né altro, si curavano le crisi di astinenza con la camomilla».

E Luigi Cancrini, da me intervistato per un libro scritto tre anni fa (Piccola città. Una storia comune di eroina, Laterza): «Fu in quel momento che apparvero personaggi come Vincenzo Muccioli che, iniziando da una vicenda sua personale che lui raccontava come una conversione religiosa, in buona fede, mise in piedi questa grande impresa». San Patrignano, Ceis, Gruppo Abele, don Riboldi, Saman. La «comunità» di recupero entra a far parte dell’immaginario nazionale come alternativa ai luoghi di somministrazione del metadone pubblici, ben descritti da Carlo Rivolta nei suoi articoli sul quotidiano La Repubblica.

«Il centro del Comune così funziona solo al pomeriggio per la distribuzione del metadone e alla mattina per l’assistenza psicologica. Sono tornato di pomeriggio. Questa volta il girone era pieno di ‘dannati’ che aspettavano il loro turno (…). Una ragazzina bionda, capelli lunghi, un viso molto dolce e triste, mi ha raccontato la sua storia: “Vengo qui da due mesi. Appena arrivata mi hanno fatto compilare una scheda. C’è la mia condizione sociale. Mi hanno chiesto subito se volevo assistenza psichiatrica. Ho detto di no, da allora nessuno si è mai più interessato al mio stato psichico. E io invece sto male: prima avevo degli amici, quelli con cui mi bucavo, ora mi hanno isolata. Qui al centro invece siamo tutti divisi, ci vergogniamo tutti un po’ di essere qui, e tra noi non c’è rapporto. Tantomeno abbiamo il minimo rapporto con gli assistenti sociali. Insomma si viene qui, si prende il metadone, e si va via. Chi vuole tirarsi fuori dall’ero, in pratica lo fa da solo”».

Solitudine e controllo totale

Non dimentichiamola questa solitudine e la vergogna mentre guardiamo il documentario Sanpa. Quando sentiamo ragazzi e ragazze che dicono di preferire le catene a quella solitudine, vista dal loro punto di vista, quella scelta è plausibile, disperata e plausibile.

E non dimentichiamo neppure il contesto, che è del tutto assente nella miniserie: nel 1978 la legge 180, più conosciuta come legge Basaglia, chiude i manicomi dove la legge del 1923 rinchiudeva i tossici (i medici avevano l’obbligo di denuncia).

Bene una volta chiusi i manicomi dove si mettono i drogati? In carcere? Costa troppo allo stato e poi a volte il tossico non ha nemmeno commesso un reato visto che dopo il 1975 il consumo non è più considerato tale. Intanto la marea dell’eroina monta e le famiglie, che come si dice a un certo punto nella miniserie sono migliaia e migliaia, sono disperate. Così nasce questo kibbutz all’italiana (espressione di Giovanni Minoli), San Patrignano, dove il lavoro e la vita comunitaria sembrano essere la risposta al male di vivere dei tossici.

Ma non è un “poema pedagogico” quello che scrive Muccioli sulla collina sopra Rimini, è piuttosto un progetto di controllo totale, che ricorda quelli di Osho o di Ron Hubbard che, negli stessi anni, decide anche lui di salvare i tossicodipendenti. Da questo frainteso concetto di “comunità”, da questa idea patriarcale della relazione fra terapeuta e “malati” nasce il metodo San Patrignano, che non disdegna il ceffone quando è necessario, e la reclusione, e le catene, a ricreare il manicomio proprio mentre nel resto del paese si sta cercando di smantellarlo. Il resto (ascesa e declino, AIDS, processi) è storia (o meglio miniserie).

Riflettere sul tema delle droghe

Come ogni racconto ben concepito, la serie su San Patrignano lascia aperte molte domande: quanto delle future politiche sulle droghe prendono corpo lì, sulla collina, quanto il modello patriarcale imposto da Muccioli ha plasmato e plasma il discorso sulle droghe. Muccioli ripete spesso di essere un padre per i suoi ragazzi. Ma siamo sicuri che la famiglia sia un luogo salvifico, sempre? Come scrisse Cancrini nel suo primo studio Esperienza di una ricerca sulle tossicomanie: «Le famiglie dei tossicomani si dividono in due specie: «Mi aspetto molto da te. Non mi aspetto niente da te». Muccioli si aspetta molto dai “suoi” ragazzi, ma cosa dà in cambio?

Oggi riflettere sulla storia di Muccioli in modo serio è fondamentale per criticare fino in fondo quell’impostazione che vede solo due possibilità di salvezza per i “drogati”: il salvatore o il padre padrone, comunque la figura forte che deresponsabilizza il resto della società che delega e si volta dall’altra parte.

E magari, grazie alla serie, la politica si ricorderà che la conferenza nazionale sulle droghe non viene convocata da undici anni come ricorda Claudio Cippitelli, operatore romano: «Ricordo la prima conferenza nazionale sulle droghe di Palermo, nel 1993. Era previsto l'intervento di Muccioli e lui, avvertito dallo staff di San Patrignano della presenza del padre di Giuseppe Maranzano in sala, si dava alla fuga. Non so se vedrò Sanpa su Netflix, non so se ho voglia di tornare a discutere questioni di oltre quarant’anni fa, mentre non viene organizzata la conferenza nazionale sulle droghe da undici anni (secondo la legge da celebrare ogni tre anni)».

Infine: la dipendenza va guardata dritta negli occhi, le interviste agli ex ospiti della comunità ci consentono di farlo e sono la parte più bella e importante di questo lavoro che per una volta sembra dire: non c’è niente di cui vergognarsi nelle vostre storie, parlatene, parliamone. E grazie per avercele raccontate.

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