Fra le prime immagini pubblicate su Instagram per il lancio della nuova stagione di The Crown, quella che ha suscitato più apprezzamento da parte del pubblico, quasi 140 mila ‘like’, riprende il famoso e voluminoso vestito indossato da Diana nel giorno delle nozze con Carlo. Oltre al momento dell’incontro fra Margaret Thatcher e la regina, è stata forse questa una delle scene più attese della quarta stagione della serie di Netflix uscita a metà novembre, ormai considerata una delle produzioni di maggior successo di sempre.

La didascalia della foto precisava come, con il suo modello, la costumista avesse voluto catturare lo spirito dell’abito originale senza tuttavia creare una semplice replica. Lo strepitoso successo mondiale di The Crown potrebbe essere riassunto in questa contraddizione: c’è la verità storica; e poi c’è una verità sul passato più ampia, che rielabora fatti ed eventi per meglio catturare lo spirito dei tempi. Qualcuno oltreoceano potrebbe aggiungere, “una verità alternativa”.

Che sia più interessante, certamente molto più divertente, seguire una drammatizzazione degli eventi storici invece che sbobinarsi un didascalico documentario sullo sciopero dei minatori e sulla guerra nelle Falkland-Malvinas non è certo un dato di novità, neppure per questa fase di forzata reclusione davanti a uno schermo in cui ci siamo tutti ritrovati.

Nel Regno Unito e non solo le serie e i film che ricostruiscono i momenti dirimenti della storia recente sono un genere di successo, come dimostra la lunga lista di film recenti su Churchill o sulla Prima e Seconda guerra mondiale. Ma l’entusiasmo che è andato crescendo attorno alla quarta stagione e la quantità di inchiostro e click che sono stati spesi per decostruire ogni singola puntata sia in Inghilterra che negli altri numerosi paesi in cui The Crown è trasmessa, segnalano qualcosa di più profondo.

La rielaborazione del passato attraverso una forma di ‘invenzione della tradizione’ che in The Crown associa glamour da jet-set internazionale con il fascino decadente dei drappeggi di Buckingham palace, ha a che fare non solo con la vicenda di un decennio non ancora completamente storicizzato, sia esso rappresentato dalla polarizzazione di giudizi che scatena il primo ministro Margaret Thatcher o dalla vicenda tenera e drammatica di Lady D e del ‘vero’ erede al trono, il figlio William.

Racconta anche le nuove fratture che in quel decennio si sono formate e che ancora oggi attanagliano il paese. Racconta inoltre il rimosso della storia imperiale mai completamente affrontata e la questione europea mai totalmente accettata. Racconta la crisi – culturale e politica – in cui siamo immersi.

Memoria collettiva e vita quotidiana

La quarta serie di The Crown si concentra sugli anni ’80; si apre con il trionfale ingresso a Downing street di Margaret Thatcher e la sua citazione di san Francesco si conclude alle soglie del divorzio fra Carlo e Diana. Anni di grandi spalline nelle giacche e nei cappotti dai colori forti, di pettinature alte e gonfie e, soprattutto, anni di grandi scandali per la famiglia reale.

Un decennio in cui la globalizzazione culturale prese decisamente la via dell’accelerazione e le vicende degli Windsor entrarono a far parte di una sorta di immaginario collettivo transnazionale. Molta della forza narrativa di The Crown è dovuta a questa impronta globale, come se si trattasse insomma di un esempio concreto di storia collettiva mondiale.

Se dunque la drammatizzazione del momento storico aveva funzionato con più naturalezza nelle serie precedenti, qui la memoria collettiva e partecipata che tutti condividiamo circa eventi che tutti abbiamo vissuto, seppur attraverso la TV e i tabloid, aggiunge pathos alla visione.

Una sorta di voyerismo pubblico che, sapeva bene Alfred Hitchcock, se modulato con eleganza come, va detto, riesce a fare il regista Peter Morgan, rappresenta uno dei canoni cinematografici più potenti. Un voyerismo che è anche politico e che sbircia dentro un'altra residenza facendoci vedere Margaret Thatcher mentre stira le camicie al marito o mentre prepara puddings e pies per i membri più stretti del suo governo. La prima donna primo ministro, ovvio; c’era da aspettarselo e, in realtà, era esattamente quello che faceva.

Il rischio di trasformare gli spettatori e l’opinione pubblica in una sorta di tribunale della storia però non è insensato. Senza scomodare concetti come uso pubblico della storia, la rielaborazione degli eventi storici attraverso le serie è uno dei fenomeni culturali di questi anni e non va sottovalutato.

Il ruolo giocato, per esempio, nel dibattito che ha portato al referendum sulla Brexit da un’altra serie di enorme successo come Downton Abbey – involontariamente, sia chiaro – presentando una Inghilterra pre-europea compassionevole e giusta, senza conflitti sociali è evidente.

Oltre al gioco dello sbirciare dal buco della serratura, The Crown offre anche un altro intrattenimento collettivo: il gioco del trova l’errore. Un esercizio divertente, anche se forse inutilmente accademico, potrebbe essere quello di elencare la quantità di imprecisioni e inesattezze presenti.

Sono parecchie: le più lampanti senza dubbio sono lo stop imposto da Diana al programma ufficiale della visita in Australia che permette al regista di insistere con la macchina da presa sul piccolo William, da un lato, e il livello della tensione fra Elisabetta e il suo primo ministro dall’altro. Non si trovavano di certo simpatiche, ma indicare la regina come il ‘mandante’ del famoso articolo del Times in cui Margaret Thatcher viene accusata di insensibilità è una forzatura istituzionale inutile.

La questione non è puramente accademica, perché alla fine pensiamo che in fondo la corona fa sempre la cosa giusta e che il modello non sarà perfetto ma sicuramente meglio funzionante se comparato, per dire, alle caotiche repubbliche continentali.  

Il protagonismo delle donne   

Il tratto decisamente positivo di questa serie è il protagonismo delle donne. Non vi è dubbio che si tratta di una ricostruzione ‘al femminile’, confermata e propagata dalla quarta stagione.

Nemmeno Charles Dance nel ruolo di Lord Mountbatten, ucciso dall’Ira nel primo episodio in questa serie è riuscito a reggere la sfida. Un altro elemento, forse, di fabbricazione consolatorio questa centralità femminile. Ma anche chiaramente funzionale ai nostri tempi.

Anche questa stagione è quindi interpretata mirabilmente da un notevole cast femminile: ognuno di noi avrà la propria classifica dell’interpretazione più convincente, il dialogo più tagliante, la ricostruzione più realistica. Ad Helena Bonham Carter nella parte della principessa Margaret sono spettate senza dubbio le battute più ironiche; sicuramente è lei la mia preferita. La Thatcher di Gillian Anderson risulta un po’ troppo macchiettistica, ha sentenziato la critica inglese; la compostezza di Olivia Colman nel ruolo di Elisabetta ha retto il confronto con i momenti difficili del Thatcherismo ed Emma Corin, che aveva di certo la parte più difficile nel ruolo di Lady D., ha superato l’esame.

Josh O’Connor è un Carlo perfetto, anche se decisamente più bello dell’originale, ma si sa che in questa stagione non avrebbe potuto reggere il confronto, e in un crescendo continuo si arriva all’ultima puntata che ci è diventato proprio antipatico così come Camilla è ancora più odiosa.

Il tratto elegante di The Crown nel non voler inserire ogni piccolo avvenimento considerato dirimente ma l’aver scelto una narrazione episodica minimalista ha confezionato dunque una straordinaria e piacevole stagione. Del resto, ce ne sono altre due in arrivo e con loro anche la speranza di vedere in futuro quello che qui non è stato sufficientemente evidenziato.

Simon Jenkins sul Guardian, criticando con asprezza la manipolazione dei fatti storici, ha suggerito di aggiungere nella prossima stagione in un angolo dello schermo una icona con una F a segnalare il fatto che quello che si sta guardando è, appunto, ‘fiction’. Per il pubblico italiano forse non sarebbe nemmeno troppo disturbante vista la consuetudine con gli annunci a inizio trasmissione che ‘nel programma sono presenti inserimenti di prodotti a fini commerciali’.

Non credo tuttavia che la soluzione sia così semplice e nemmeno così paternalista. L’uso pubblico della storia è parte integrante di ogni processo di costruzione dell’egemonia politico-culturale e, dunque, della legittimazione politica ampia. Averne consapevolezza intellettuale ne è antidoto. L’uso privato della storia del resto non avrebbe senso.

Continuare a separare le sfere della produzione culturale e dell’intrattenimento dalla riflessione storica fondata sul metodo scientifico è forse il solo, seppur accidentato, percorso che abbiamo in attesa di sapere chi nella prossima stagione avrà il ruolo di Tony Blair.

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