Il primo a intuirlo fu John Lennon. Nella primavera del 1967, quando Sergeant Pepper si preparava a sconvolgere il mondo musicale, venne il momento di pensare una copertina altrettanto rivoluzionaria. A realizzarla furono chiamati Peter Blake e Jann Haworth, e la loro idea – uno scatto della band con alle spalle una parata di personaggi famosi – conquistò tutti.

Ma quali nomi scegliere? Ringo si tirò indietro, dicendo che gli andava bene quello che votavano gli altri. George propose una (de)nutrita serie di guru indiani. Paul incluse Mae West, la quale in prima battuta si rifiutò di figurare in un club di cuori solitari. Poi fu il turno di John, che con la sua solita vena oltraggiosa propose Gesù (cassato per non riaprire polemiche recenti), Gandhi (eliminato nel timore di giocarsi il mercato indiano) e infine lui, il più improponibile di tutti: Adolf Hitler.

Secondo alcuni l’idea fu considerata stupida e scartata con decisione; secondo Blake, invece, non solo l’immagine del Führer fu realizzata, ma venne montata in mezzo alle altre: «Lui c’è, ma è coperto dalla band. Per questo non lo vedete». Il che, a pensarci, è l’emblema perfetto di ciò che Hitler è diventato nell’immaginario contemporaneo: un fantasma onnipresente, un rimosso che non smette di tornare. L’icona pop del nostro lato oscuro.

Non è solo questione di attualità – politici che suddividono la popolazione per utilità allo sforzo produttivo, neonazisti di provincia che eleggono Miss Hitler, le immancabili svastiche disegnate sulle lapidi (spesso al contrario, per pura insipienza). Il fenomeno è anzitutto culturale. Accendete la televisione e scorrete i canali: le probabilità di incontrare un documentario sul nazismo sono altissime, quasi una certezza. Lo stesso accade in edicola: riviste su riviste che raccontano le solite storie spacciandole per nuove, e continuando a vendere.

Entrando in libreria, poi, l’impressione che il defunto Terzo Reich sia più vivo che mai diventa schiacciante. In Italia attualmente risultano in commercio 398 libri con «Hitler» nel titolo, 276 con «nazisti» e 269 con «nazismo»: nazismo e chiesa, nazismo ed ebraismo, nazismo e islam, le donne del nazismo, gli animali e il nazismo... Esiste persino un La società dei Puffi tra stalinismo e nazismo, che contende la palma del miglior titolo a I testicoli di Hitler.

La fortuna narrativa

Ma è in narrativa che il Reich ha avuto più fortuna. In Francia dal 2007 a oggi hanno vinto il Goncourt ben tre romanzi a tema: Le benevole, HHhH, e L’ordine del giorno. In Italia Le assaggiatrici di Rosella Postorino ha conquistato il Campiello. In Spagna Clara Sanchez si è aggiudicata il premio Nadal con Il profumo delle foglie di limone, che racconta una caccia a nazisti impuniti (come già Stephen King in Un ragazzo sveglio).

Trattando un oggetto criminale e ormai mitologico come il nazismo, è però la narrativa popolare a fare la parte del leone: da Ken Follett, esploso con la spy story La cruna dell’ago, a Robert Harris, che ambienta il suo Fatherland in un mondo in cui Hitler ha vinto la guerra; da Sven Hassel, autore di fortunate memorie come pilota di panzer, alla coppia Giacometti-Ravenne, che intessono avventure intorno al nazismo magico. La produzione di genere sul Reich è immensa. Nel giallo spiccano serie con personaggi ambivalenti come il Bernie Gunther dello scozzese Kerr, il Léon Sadorski del francese Slocombe e il Martin Bora dell’italiana Ben Pastor.

Ma è nel fantastico che Hitler torna più spesso, con due filoni ben codificati. Il primo è il what if?: e se non fosse morto nel bunker? E se rinascesse ai giorni nostri? E se tornassimo indietro e lo uccidessimo in fasce? Il secondo, altrettanto abbondante, è il sottogenere esoterico, che nutrendosi delle note fissazioni misteriosofiche di Himmler immagina una Wehrmacht armata di energie aliene (il famoso Vril) o di oggetti miracolosi in grado di garantire la vittoria finale (il Sacro Graal, la Lancia di Longino). Il che può far ridere, ma solo fino a quando ci ricordiamo che i nazisti storici non andavano in Tibet per scarpinare, ma per trovare l’accesso alla mitica città di Agartha, come sa chi frequenta Martin Mystère.

Si potrebbe sospettare che questa ossessione per le ossessioni naziste sia tutta europea, legata a sensi di colpa mai sopiti o a nostalgie per tempi che alcuni immaginano migliori non avendoli vissuti, ma basta allargare lo sguardo a cinema e tv per capire che non è così. I film sul Reich non conoscono confini, dalla prima parodia di Chaplin (cui H. aveva rubato i celebri baffetti) al tragicomico straniante di Taika Waititi (che in Jojo Rabbit è un Führer amico immaginario di una giovane recluta), passando per i kolossal di guerra, le necessarie rievocazioni della Shoah e vette artistiche come il Moloch di Sokurov.

Ma l’impatto del nazismo sulla fantasia globale si misura soprattutto nel successo di blockbuster come I ragazzi venuti del Brasile, Indiana Jones e l’ultima crociata, Valkyrie, La caduta, Bastardi senza gloria, o serie tv come The Man in the High Castle (altra ucronia con Hitler vincitore) e Hunters (in cui Al Pacino insegue le tracce di ex gerarchi). Persino The Boys, serie fantascientifica su un gruppo di supereroi deviati, dovendo dare un volto al Nemico ha scelto di ripescare Adolf Hitler! Può trattarsi soltanto di scarsa fantasia? O ci troviamo di fronte a un’attrazione ineludibile, come la gravità di un buco nero a cui nulla può sfuggire?

Difficile spiegare altrimenti la fortuna del tema, che pervade anche l’arte (celebre l’Him di Maurizio Cattelan), il fumetto (Maus, I tre Adolf, Capitan America), la letteratura per ragazzi (Wolf, Quando Hitler rubò il coniglio rosa) e i videogiochi, dove la continua comparsa di avatar hitleriani nell’innocuo Mario Kart ha imbarazzato la Nintendo, mentre lo sparatutto Wolfenstein, a caccia di nazisti e zombie, ha conosciuto tredici reboot in quarant’anni.

Prigionieri della narrazione

Del resto non è necessario sbirciare sui siti che vendono memorabilia del Reich (ricordate il padre omofobo di American Beauty?) per rendersi conto che la fascinazione per le forme del Nazismo è ancora forte. Alla parola “divisa” quasi tutti associamo la livrea delle SS disegnata a suo tempo da Hugo Boss, e se si pensa alle Olimpiadi viene subito in mente la fiaccola inventata a Berlino nel 1936 e immortalata dalla regista Leni Riefenstahl.

Il fatto è che l’essere umano è un animale simbolico, che ha bisogno di segni e liturgie per dare un senso a sé stesso e al suo posto nel mondo. I nazisti questo lo avevano appreso dagli studi di Le Bon sulla psicologia delle masse, e sono stati fra i migliori ad approfittarne.

L’attenzione maniacale a gerarchie, titoli, decorazioni, cerimonie; l’utilizzo di urbanistica e architettura a fini propagandistici; la creazione di riti, ricorrenze, festività totalizzanti; l’appropriazione di simboli pacifici come la svastica, cui fino al primo Novecento si potevano intitolare riviste per ragazze, marche di frutta e scatole di sigari (vedere Steven Heller, Storia universale della svastica).

Il nazismo continua a colpirci perché Goebbels e Speer seppero creare un canone estetico universale, purtroppo ancora funzionante. Non a caso Darth Vader, il villain nazista di Guerre stellari, è uno dei personaggi preferiti dai bambini. Non a caso l’Aquila hitleriana spopola sulle felpe della Boy, pubblicizzata dall’inconsapevole Rihanna.

Il nazismo non è passato di moda perché non è una moda, ma un qualcosa di potente che, una volta inventato, non siamo riusciti a disinventare. Un qualcosa di orribile che funziona anche in assenza del suo messaggio, e fa tanto più danno quanto meno lo conosciamo.

Hitler e i suoi tirapiedi hanno creato una narrazione che ci tiene ancora prigionieri (altro che secolo breve!), e come per la mosca nella bottiglia di Wittgenstein, l’unico modo di uscirne è ripercorrendola a ritroso. L’unico modo per non ripetere gli orrori della storia è raccontare ancora, e sempre meglio, le sue storie. 

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