Per secoli, il consumo di cioccolata, un tempo solo in forma liquida, fu al centro di un acceso dibattito teologico: mangiare cioccolato rompe o no il digiuno ecclesiastico? La “questione morale” divenne simbolo delle tensioni tra dottrina, gusto e cultura
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I teologi discussero per secoli se il consumo di cioccolata rompesse o meno il digiuno eucaristico. Poiché la cioccolata si consumava esclusivamente come bevanda, vi era chi la considerava alla stregua dell’acqua e del vino e quindi non proibita nei giorni di digiuno e chi invece ne sottolineava la capacità nutriente e soprattutto riscaldante e per questo la considerava un alimento a tutti gli effetti. Non aiutava la moda spagnola e in parte italiana, di preparare la cioccolata utilizzando anche ricette complesse, che comprendevano l’uso di spezie, nocciole, mandorle, latte, zucchero e perfino uova; il risultato era spesso un prodotto decisamente denso e quindi ben lontano come consistenza dall’acqua e dal vino.
Del resto, già alla fine del XVI secolo il medico spagnolo Juan de Cardenas sosteneva che la cioccolata, in virtù delle sue proprietà nutritive, rompesse completamente il digiuno: «In base alle regole della buona teologia e della medicina» gettando quindi le basi per il mostruoso connubio tra medici e sacerdoti in materia alimentare. Ma dopo queste prime schermaglie, il dibattito viene ufficialmente avviato nel 1636, quando l’erudito spagnolo Antonio de Léon Pinelo pubblica la sua Questione morale se il cioccolato rompe il digiuno ecclesiastico.
Questione di forma
In questo lungo e ponderoso trattato Léon Pinelo passa in rassegna le ragioni per cui la cioccolata va considerata una bevanda, le confuta analiticamente e conclude che se bevuta una volta al giorno in modica quantità non infrange la regola, però ne fa perdere il senso religioso. La cioccolata diventa l’ennesimo pretesto per il secolare contrasto tra gesuiti e domenicani: con i primi che in genere propendono per permettere il consumo di cioccolata anche nei tempi di digiuno e con i secondi, di conseguenza, decisamente contrari. Gli schieramenti sono così palesi che a un certo punto si diffonde diceria secondo la quale i gesuiti sarebbero favorevoli alla cioccolata per interesse economico, in quanto in Brasile avevano molte piantagioni di cacao.
Al di là delle malelingue, sono molti i pensatori e i teologi che concordano con gli eredi di Sant’Ignazio, ma ovviamente il più risoluto sarà proprio il gesuita Tommaso Strozzi, che nel 1689 pubblica a Napoli un poema in esametri latini sulla questione. E paradossalmente risultano più severi parecchi medici, che nei loro trattati non dubitano di catalogare la cioccolata tra i cibi fortemente nutrienti.
Il siciliano padre Antonino Diana nel 1637 propone una soluzione più salomonica, dopo aver riportato i pareri dei colleghi, conclude che la decisione debba essere lasciata ai teologi spagnoli, gli unici ad avere competenza “geografica” in materia. Con i decenni si precisano comunque le posizioni, ognuna delle quali pretende di aver ottenuto a suo favore pronunciamenti ufficiali da Roma; vengono spesi nomi di pontefici, Urbano VIII e Paolo V, ad esempio, che avrebbero approvato la bevanda, seppur solo oralmente e mai per iscritto.
La posizione del cardinale
Nel 1664 si sbilancia sulla “celeberrima controversia” almeno un cardinale, Francesco Maria Brancaccio, il quale si fa forza dell’ennesimo pronunciamento papale, questa volta di Alessandro VII, e quindi in un apposito trattato si schiera con i possibilisti, pubblicando addirittura alla fine del suo testo una ricetta per preparare una cioccolata parecchio sostanziosa. Non l’avesse mai fatto! L’entrata in campo delle più alte gerarchie ecclesiastiche non fa altro che esasperare il conflitto.
L’agostiniano Niceforo Sebasto scatena una campagna contro il cardinale goloso. Nel frattempo, come si può comprendere dagli autori citati, il dibattito dalla Spagna stava spostandosi in Italia, dove in effetti impazza fin oltre la metà del Settecento. In pieno secolo dei Lumi, nel 1748, il domenicano Daniele Concina si scaglia contro la cioccolata «in tempo di digiuno»: prima dal pulpito a Roma, poi in un apposito trattato; secondo il teologo veneto, chi sostiene la liceità quaresimale della gustosa tazza diffonderebbe «una dottrina falsa, erronea, scandalosa» e, se non vuole rinunciarvi per mortificazione, lo faccia almeno perché la bevanda è cosa da ricchi.
Per rispondere al Concina, si scomoda addirittura il vescovo Alfonso Maria de’ Liguori, futuro santo della chiesa cattolica, il quale giudica rigorista tale posizione. Ma al Concina risponde anonimamente anche il solito gesuita, Jacopo Sanvitale, usando tra l’altro un argomento assai specioso: se il cacao fosse un vero e proprio cibo, visto il consumo che ne fanno gli Indios d’America, non ci sarebbe bisogno di far venire gli schiavi dall’Africa, perché avrebbero forze sufficienti per lavorare essi stessi.
Insomma, la polemica teologico-moralistica si è incartata nei cavilli e per fortuna è ai suoi ultimi sprazzi. Ancora a metà Ottocento, però, un libello evangelico taccia di “papisti” quanti si preoccupano «se è permesso prendere la cioccolata». Forse proprio per questo Manzoni, che la storia la conosceva bene, ne fa sorbire una tazza a Gertrude proprio la mattina in cui lascia la casa paterna per diventare la celebre Monaca di Monza.
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