L’opposizione stampa di potere contro stampa antigovernativa tipicamente italiana, di origini ottocentesche, ha portato all’abitudine alla politicizzazione, allo schieramento, alla discesa in campo anche delle testate più apparentemente apolitiche e dei commentatori più distaccati.

Questo ha creato nel tempo un’abitudine al dibattito che è di certo il sale della democrazia ma ha anche una relativamente bassa familiarità con il cosiddetto giornalismo anglosassone, quello freddo, oggettivo, che fa parlare i fatti e che riconosce nell’opinione personale, nella soggettività, un freno al buon giornalismo.

Anche a causa di questo i meccanismi censori che i governi italiani e la politica in genere hanno applicato e continuano ad applicare piazzano l’Italia al 41esimo posto nel mondo per libertà di espressione secondo il World press freedom index di Reporters without borders. Il risultato è che da una parte il dibattito, qualunque sia, si accende, e dall’altra manca generalmente di approfondimenti oggettivi.

Aridità culturale

Se spostiamo il campo di osservazione sulla moda la situazione da cupa si fa però tragica: non solo non sembra esistere un’abitudine critica verso il sistema moda ma si fa molta difficoltà a trovare voci dissenzienti che esprimano in maniera libera giudizi articolati e magari non positivi nei confronti di stilisti, marchi, aziende o istituzioni della nostra bella penisola.

Siamo tutti abituati a leggere le recensioni di un film prima di correre al cinema a vederlo o le critiche di un libro prima di comprarlo ma pochi, veramente molto pochi, si informano su cosa e perché stia succedendo tra le fila dei designer prima di comprare un abito. Semplicemente non ci aspettiamo che ci possa essere un ragionamento intorno a dei vestiti, pensiamo di avere sufficiente capacità di giudizio per comprare una giacca o un pantalone e non vogliamo in ogni caso che il processo decisionale ci impensierisca troppo.

Questa situazione ha una serie di cause, neanche troppo lontane nel tempo.

L’aridità culturale intorno alla moda italiana è stata costruita innanzitutto a colpi di giornalismo osannante nei confronti del primo gruppo storico di marchi italiani: Armani, Versace, Ferré, Krizia, Missoni.

30 September 2021, Berlin: The Armani logo on the wall at KaDeWe. Photo by: Gerald Matzka/picture-alliance/dpa/AP Images

Tra gli anni Ottanta e Novanta quasi tutti i giornali italiani, dai quotidiani, ai settimanali, ai mensili, hanno largamente approfittato degli smisurati budget pubblicitari (e in parte ne approfittano ancora) dei brand del lusso togliendo di mezzo ogni accenno criticamente costruttivo (o distruttivo) per paura di perdere privilegi economici difficilmente sostituibili.

Mentre i grandi gruppi editoriali davano un implicito consenso a una politica di allegra sottomissione, non si sviluppavano d’altra parte giornali indipendenti in grado di aggiungere al dibattito culturale sulla moda profondità e autorevolezza. Natalia Aspesi, giornalista di Repubblica e una delle voci più dissonanti rispetto al panorama omologato del giornalismo di moda ha, a un certo punto, dovuto cedere alle lamentele degli investitori e smettere di scriverne.

Dall’altra parte dell’oceano Suzy Menkes, ai tempi giornalista dell’Herald tribune, scriveva della sfilata di settembre del 2007 di Marc Jacobs, enfant prodige della moda americana: «La brutta e triste sfilata di Marc Jacobs, in ritardo di due ore, piena di aspettative e vuota di contenuti, sta a ricordarci tutto ciò che è sbagliato nella moda attuale. Dopo una stagione autunnale potente e fuori dagli schemi, Jacobs è sembrato perdersi in una visione oscura e per niente originale fatta di abiti vintage tagliati in modo da rivelare biancheria intima di raso e indossati da donne claudicanti con ai piedi scarpe che sembravano del numero sbagliato».

Popolarizzazione

John Nacion/STAR MAX/IPx

È anche vero però che proprio tra gli anni Ottanta e Novanta il sistema moda è diventato popolarissimo, gli stilisti sono assurti a eroi nazionali e in quel periodo non esisteva trasmissione televisiva o radiofonica, evento di piazza o cerimonia istituzionale che non avesse tra i suoi invitati uno dei grandi nomi del Made in Italy.

Il discorso sulla moda è penetrato nell’ambito umanistico, sociologico, antropologico e filosofico e ha permeato di una patina di glamour discipline che avevano smesso da tempo di fare riflessioni sull’estetica o che forse, soprattutto in Italia, non avevano mai cominciato. La moda ha aperto un sistema di interscambio estremamente efficace con la musica, il cinema, il teatro e l’arte, diffondendo in maniera seria o provocatoria un modo di costruire la messa in scena, la performance, che ha scardinato barriere culturali vecchie di secoli.

La pervasività del messaggio visivo della moda e le sue tecniche di costruzione del desiderio hanno attirato l’interesse di pubblicitari, registi, celebrity e persone comuni e li hanno di fatto avvicinati a un sistema di produzione di senso estremamente complesso.

La popolarizzazione del messaggio, quasi sempre in chiave ottimistica se non utilitaristica, ha però contribuito a rendere confortante tutto quello che proveniva dalla moda e quando, verso la metà degli anni Novanta, si è sviluppato un movimento in opposizione radicale alla moda ufficiale, la sua potenza esplosiva ha toccato l’Italia molto marginalmente senza creare una vera e propria generazione di designer antisismici, innovativi e dirompenti come Martin Margiela o Raf Simons, nomi che a molti non diranno niente ma che hanno di fatto contribuito a creare l’estetica di oggi.

Uso della critica

Da questa parte delle Alpi siamo rimasti attaccati alle glorie di un fulgido passato fatto di personaggi tranquillizzanti a capo di aziende che nel frattempo erano diventate globali e ci siamo dimenticati di favorire un rinnovamento profondo del sistema, anche attraverso l’uso della critica.

Michel Foucault direbbe che in Italia è mancata una “formazione discorsiva permanente” intorno alla moda e questo ha di conseguenza portato all’impoverimento culturale del sistema.

Bisognerebbe infatti domandarsi come mai a Milano esistano due musei del design permanenti e neanche uno della moda, perché in Italia i corsi in fashion design riconosciuti dal ministero della Pubblica istruzione all’interno di università pubbliche si contino sulle dita di una mano ma anche, e forse soprattutto, quale sia il motivo per cui di moda si discuta così poco e venga relegata ancora ad argomentazione femminile, intesa nel senso deteriore di lieve e superficiale.

Il sistema moda italiano, oltre a generare più di 90 miliardi di fatturato pre-pandemia, è un’organizzazione industriale, creativa e culturale estremamente complessa che richiederebbe molto più studio di quello che gli è stato concesso fino a ora, molta più riflessione e molta più discussione a tutti i livelli.

La discussione, che si sviluppa in maniera naturale nei paesi anglosassoni, è fondata sulla possibilità e sulla capacità di esprimere un pensiero critico, di dire, per esempio, che la sfilata di Prada dell’estate 2022 non aveva senso non perché fosse brutta ma perché non veicolava a pieno il senso della contemporaneità su cui il brand ha costruito la sua identità, il suo successo.

Questo punto di vista, che farebbe innervosire qualcuno all’interno di uno dei gruppi del lusso italiani più potenti, potrebbe in realtà aprire un dialogo, rompere le barriere dell’accondiscendenza e costruire un territorio di espressione libera su cui una nuova generazione di designer, ma anche di clienti, affonderebbero le radici delle loro scelte. Libere.

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