Gli ottimisti potrebbero considerarla uno spreco di tempo, simile agli sforzi dei nativi americani, che ancora inseguivano il segreto della fusione del bronzo quando gli strumenti d’acciaio erano già molto diffusi. Una domanda inutile, tardiva. I pessimisti, al contrario, la reputeranno una domanda prematura. Sia gli uni che gli altri la formulerebbero comunque nello stesso modo: come mai, a oggi, pressoché a un anno dalla comparsa del nuovo virus nel mondo, non è ancora stato scritto un romanzo sulla pandemia? Perché ancora nessun romanzo, a eccezione di certi libri istantanei che con le minestre di quella stessa stregua condividono non soltanto la sveltezza di esecuzione ma soprattutto la qualità, perché nessuno tra gli innumerevoli romanzi arrivati in libreria è stato salutato come quello grandiosamente capace di raccontare l’umanità in questo suo anno orribile?

Quanto saremo costretti ancora ad aspettare? Sarà la primavera, sarà il vaccino a darci finalmente quel libro che nessuno intimamente sta aspettando ma che in tanti leggeranno una volta che sarà pubblicato? Si dirà che fin qui è mancato il tempo, che anche il romanziere più disciplinato, stakanovista e con l’animo da travet, ha bisogno di più tempo di quanto non ne abbia ancora avuto. Si dirà che anche lo scrittore più cinico o smanioso si accompagna a un agente e a un editore che lo dissuaderebbero a mandare ora in libreria un romanzo che meriterebbe acque più calme e lettori più vaccinati.

Da qualche parte ho letto, anni fa, questa definizione gravemente ingenerosa secondo cui lo scienziato sarebbe né più né meno che un uomo o una donna che non ha capito niente finché non c’è più nulla da capire. Ora mi sto invece chiedendo se questa meschinità non sia adatta per gli scrittori: se, a parte quelle eccezioni che però non rappresentano affatto la categoria, gli scrittori non siano innanzitutto uomini e donne che non capiscono niente finché ahimè non ci sia più niente da capire. E che quindi sia questa la ragione per cui il mio quesito sarebbe al momento perlomeno prematuro.

Nel racconto di Bernard Malamud Sarà la mia morte, compare un sarto di origini siciliane talmente abile da realizzare un risvolto perfetto nello stesso tempo in cui un qualunque altro suo collega, a mala pena, riuscirebbe a prendere le misure al cliente. E descrive il talento di questo sarto come un’abilità «che si poteva trovare ma non cercare». Allo stesso modo ce ne sono al mondo di scrittori ugualmente lesti a confezionare un’opera in tempi che per altri non sarebbero neanche sufficienti per attaccare il cavo del computer portatile alla presa elettrica, ma si possono soltanto trovare, non si lasciano cercare.

Pochissimi, certo, sono in grado, come pare lo fosse il fratello di Charlotte ed Emily Brönte, Bramwell, di essere non solo ambidestri, ma di saper scrivere contemporaneamente con tutt’e due mani – di Bramwell si dice che, nello stesso momento, scrivesse due lettere, ovviamente due lettere diverse, e a due diversi destinatari. Ma di scrittori rapidissimi a scrivere, avvalendosi di entrambe le mani per un solo romanzo, ce ne sono più di quanti non se ne immagini, eppure neanche loro hanno ancora pubblicato un romanzo in mascherina. Cosa stanno facendo? Avranno preso la pandemia come una vacanza? O, invece, tutti gli editori hanno già in casa il libro e stanno solo attendendo di mandarlo in stampa quel fatidico giorno in cui i lettori non rischieranno una multa per aver messo il naso fuori di casa? A essere cospirazionisti si passa per stolti, ma magari ci si azzecca.

Oppure i romanzieri si sono fatti più guardinghi e gli editori meno solerti? Forse persino le fattezze di un mostro così sanguinario devono passare a un lungo esame della coscienza collettiva degli scrittori. E tra quanto dovremo iniziare a disperarci temendo che la pandemia possa addirittura andare incontro a una consacrazione nostalgica?

L’abbiamo scampata?

Il numero di assistenza delle biblioteche di New York riceve spesso telefonate inusuali. I lettori compongono quel numero per porre le domande più disparate e imprevedibili. Gli utenti che chiamano, chiedono: «Quanti nevrotici abitano in città?», «Mi sa dire il numero di regnanti britannici che mangiavano con la mano sinistra» o «Qualche statistica sulla vita delle donne abbandonate, per cortesia?». Come se alla cornetta ci fosse non un bibliotecario spazientito, ma un magnifico dotto, sensazionalmente erudito in qualunque faccenda dello scibile umano. Disponessi ora della possibilità di fare una telefonata intercontinentale, comporrei quel numero immediatamente.

Mentre il telefono squilla ripasserei la formula per avviare la conversazione, “Hello, is this the information desk of the New York Public Libraries?” dopodiché, attenendomi rispettosamente ad un argomento in effetti consono a una biblioteca, domanderei allo sventurato che risponderà dall’altro capo dell’oceano quali siano le ragioni per cui ancora non sia uscito un romanzo incentrato sulla pandemia in corso. “Why haven’t we read a great novel about Coronavirus yet?”. Lo sanno loro? E poi: è presto per dire che l’abbiamo scampata? Faccio male a sperare nella costumatezza degli editori o a sbaglio a temere la stima gigantessa che di sé hanno gli scrittori, persino al cospetto del morbo invisibile? Nel film Dieci piccoli indiani di René Clair, tratto dal giallo di Agatha Christie, un investigatore privato confida a un medico ciò che entrambi sanno: «Nella nostra professione non facciamo mai ciò che lasciamo intendere di fare».

Forse gli scrittori, che nelle interviste rilasciate ai quotidiani nella scorsa primavera si proclamavano restii a raccontare la pandemia, forse stavano bluffavano? Il solo svantaggio che porterà il vaccino alle nostre comunità, stando a questa intuizione, saranno i romanzi sulla pandemia. In concomitanza con le dosi vaccinali, c’è da starne certi, ne arriveranno a torme. Quando uno scrittore, che lui apprezzava ben poco, pubblicava un nuovo romanzo, Borges diceva che il tale «aveva commesso un nuovo libro». Saranno tanti i libri commessi, i libri efferati, i libri spietati, una volta che la popolazione avrà fatto il secondo richiamo.

Non è ancora uscito un romanzo sulla pandemia perché chi l’avesse scritto sarebbe andato incontro a quello stesso malinteso che toccò in sorte al capitano James Cook quando con la sua nave, l’Hms Endeavour, si incagliò sulla costa australiana del Queensland. Allora, mentre alcuni membri dell’equipaggio provvedevano ai rammendi così da potersi rimettere in mare, Cook incontrò gli aborigeni di quella terra sconosciuta. Uno dei suoi marinai, indicando gli strani animali con i cuccioli nei marsupi, che saltavano sulle zampe posteriori, chiese a un aborigeno come si chiamassero.

E l’aborigeno, stando a questo aneddoto probabilmente fasullo, disse “kanguru”. Da allora, per riferirsi a quegli animali, Cook e i suoi uomini usarono quel termine. Soltanto più tardi vennero a sapere che nella lingua degli aborigeni “kanguru” significava “cosa hai detto?”. Forse l’indole collettiva degli scrittori si è fatta d’un tratto prudente, dolcemente cauta, perché anche i più spudorati e impazienti non vogliono che quello che ora riterrebbero un’efficace rappresentazione della realtà, si riveli tra qualche mese soltanto la prova che non ci avevano capito niente.

Destino crudele

Quando riuscirà lo scrittore a riprendere possesso del suo lembo di terraferma? Quando reclamerà di far sentire la sua voce? E allora non sarà sufficiente la competenza pettegola degli esperti, né i bagliori chimerici della fantascienza. Il romanzo che sarà capace di onorare questi tempi terribili avrà, tra le altre sue doti, quella di dimostrarsi incline alla seduzione per il destino crudele dell’umanità. Nell’ultimo capitolo de La peste, Albert Camus svela che, ad averci raccontato l’intera vicenda, è lo stesso protagonista di cui abbiamo seguito le infelici gesta, ossia il dottor Bernard Rieux. È stato lui a condurci nella città mercantile di Orano, con i suoi cittadini indaffarati eppure indolenti, devastata ora per mano della peste bubbonica.

Nonostante sia stato testimone di ogni cosa, nonostante abbia vissuto e sofferto il tremendo periodo della pandemia, Bernard Rieux ha preferito raccontare la calamità usando la terza persona. Lo ha fatto per “debito ritegno”, lo ha fatto per “riserbo” nei confronti delle vittime del flagello. L’unica pretesa che chiunque di noi avanzerà agli scrittori che, presto o tardi, decideranno di scrivere un romanzo sul contagio tuttora in atto, sarà che questi giurino, senza incrociare le dita, di rispettare ossequiosamente l’ultimo capitolo del romanzo di Camus.

 

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