Sottoponendo i gatti a una dieta plant based si rischia che diventino inappetenti, che si rifiutino di mangiare. Nel caso dei cani, l’imposizione c’è, ma è più facile da gestire. In Italia i brand di pet food che propongono una linea plant based sostituiscono le proteine animali con farine di legumi, mentre nel Regno Unito Meatly ha messo a punto la sintetizzazione di cellule animali a partire da un uovo
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Nell’estate 2024 il governo italiano aveva già messo un punto alla questione “carne coltivata”, vietandone il commercio prima ancora che l’Unione europea potesse pronunciarsi sul tema. Nel frattempo, il Regno Unito ne approvava la produzione limitata all’industria del pet food. Unica realtà sul mercato inglese, per ora, è Meatly, una start up che ha promesso di iniziare a distribuire i propri campioni nel 2025, per affermarsi sul mercato entro tre anni. In Italia i padroni di cani e gatti che vogliono eliminare dalle loro diete mangimi che presuppongono la sofferenza di altri animali, per ora, hanno un’unica alternativa: il cibo vegano.
Da nicchia a questione etica
Di cibo vegano per cani e gatti si discute da anni e a oggi quasi tutte le aziende di alimenti per animali hanno una propria linea vegana. «Quello del pet food 100 per cento vegetale non è un tema fra i veterinari, piuttosto fra i proprietari, è partito da loro per poi essere preso in considerazione dalle aziende, ma oggi resta una nicchia». A parlare è il professor Giacomo Biagi, docente di scienze mediche veterinarie all’università di Bologna. «In generale», continua, «la posizione di noi professionisti tende a riflettere le convinzioni del singolo, anche se non dovrebbe essere così».
Nonostante su internet si trovino diverse ricerche sperimentali che consigliano una dieta vegana per i propri cani, non ci sono evidenze scientifiche che questa possa risultare più salutare. Certo, sottoporli a un regime vegetale è possibile, almeno nel caso dei cani, ma resta da chiedersi quanto sia giusto imporre loro le proprie scelte in fatto di dieta e quanto il cibo plant based sia da considerarsi un’alternativa più sostenibile per il pianeta.
Carnivori
«Sia cani che gatti sono animali classificati fra i carnivori, ma tra loro c’è una differenza importante: nel corso del tempo i primi si sono adattati a una dieta onnivora e se sottoposti a un regime vegano vanno incontro più o meno alle stesse carenze di una persona», spiega Biagi. A tali mancanze si può sopperire tramite vitamine e integratori (come la vitamina B12). Il caso dei gatti è più complesso. «Il gatto deve ricevere certi nutrimenti da alimenti di origine animale, per esempio ha un bisogno diretto di vitamina A, che l’uomo e il cane sono in grado di produrre dal beta carotene», afferma il professore.
La distinzione è spiegata da fattori evolutivi: i cani sono stati sottoposti a una pressione selettiva e gli esemplari che hanno imparato a utilizzare certi precursori ne hanno beneficiato. I gatti questa pressione non l’hanno subita e sottoponendoli a una dieta plant based si rischia che diventino inappetenti, che si rifiutino di mangiare, sviluppando quindi patologie cardiache o cecità. Nel caso dei cani, l’imposizione c’è – se messi davanti a un piatto di carne o a una crocchetta 100 per cento vegetale, sceglierebbero senza esitazioni la prima – ma è più facile da gestire.
Quando industriale è meglio
Quando si parla di dieta vegana per cani e gatti la scelta migliore sono quasi sempre i prodotti confezionati. «Le aziende sono in grado di produrre alimenti vegani, soprattutto per cani, completi di tutti i nutrienti, mentre una dieta home made che sia 100 per cento vegetale e risulti bilanciata è difficile da ottenere a livello casalingo», sottolinea Biagi.
In Italia i brand di pet food che propongono una linea plant based sostituiscono le proteine animali con farine di legumi, tipicamente soia, piselli o lenticchie. Uno di questi è “Vecan”, l’unica crocchetta per cani venduta in Italia da un ente no-profit. Si tratta di Vitadacani, una onlus nata nel 1992 che oggi gestisce strutture di accoglienza per animali: due parchi cani e il santuario Porcikomodi, che ospita animali “da reddito” rimossi dall’industria produttiva.
Nei primi anni Duemila Vitadacani ha dato il via a “Vecan”, una linea di crocchette a base di proteine di piselli, per coniugare in modo il più possibile coerente il progetto del santuario con la cura dei cani. «I nostri amici a quattro zampe non mangiano tutti vegano, perché non ce lo possiamo permettere», spiega Sara D’Angelo, presidente di Vitadacani e fondatrice della rete dei santuari, «ma la nostra scelta è di non acquistare pet food per non investire nel commercio di carne, quindi accettiamo donazioni in cibo e utilizziamo per quel che possiamo il Vecan».
Le alternative
Mentre nel Regno Unito Meatly ha messo a punto la sintetizzazione di cellule animali a partire da un uovo, per cominciare a produrre la prima carne coltivata destinata al pet food, in Italia, il tema del cibo vegano assume spesso i colori netti della questione politica. Nonostante sia legittimo interrogarsi sull’imporre o meno a un animale le proprie scelte, privandolo di cibi per lui naturalmente più appetibili, la voce di chi sceglie questa imposizione risponde giocando la carta delle decisioni individuali. «Le scatolette che finiscono nella ciotola del nostro cane, nove su dieci contengono animali che non sarebbe in grado di cacciare o non incontrerebbe: spesso è pesce, o sono animali grandi, tipo il manzo», evidenzia D’Angelo.
D’altro canto, i mangimi tradizionali spesso derivano da scarti del mercato della carne, mentre per la produzione plant based si usano soprattutto materie prime “vergini”. Ma quando si parla di sostenibilità alimentare è bene allargare lo sguardo ad altri fattori. «Il pet food è fatto di imballaggi e trasporto e il discorso della sostenibilità diventerà sempre più importante», osserva il professor Biagi.
«Le crocchette sono quasi tutte prodotte in Italia, ma ad esempio gli alimenti umidi per il gatto, soprattutto quelli a base pesce, arrivano spesso dalla Thailandia: avere dei container di scatolette, fatte d’acqua per l’80 per cento, che viaggiano dall’Oriente all’Europa è una contraddizione».
Sottoporre i propri animali a un regime 100 per cento vegetale, dunque, è possibile, ma, almeno per ora, è una scelta etica, che ha poco a che fare con la sostenibilità. Chissà che, in futuro, tra farine di grillo e proteine sintetizzate in laboratorio, il pet food non diventi il terreno ideale per sperimentazioni alimentari alternative, da riproporre anche nella dieta umana.
© Riproduzione riservata