Sono noti i pensieri che Pasolini dedicò, nei suoi ultimi anni, a fascismo e antifascismo. Riteneva che il fascismo classico fosse ormai archeologico, superato in capacità incisiva dal nuovo potere della società dei consumi; e a questo nuovo potere, pur ritenendo il termine inadeguato, dava il nome di “vero fascismo”, giungendo quindi a una formulazione provocatoria: «I veri fascisti sono ora in realtà gli antifascisti al potere».

Il comizio di fronte a folle oceaniche non funzionerebbe, pensava, su uno schermo televisivo; le parole d’ordine del Ventennio toccavano solo la crosta di chi le ripeteva, mentre l’omologazione imposta subdolamente dai media consumisti di massa entra in profondità e influisce sulla psiche degli individui in modo più creaturale e totalitario.

Gratificare le coscienze

Noi antifascisti, sosteneva includendo sé stesso, «non abbiamo fatto niente perché i fascisti non ci fossero, li abbiamo inchiodati ai loro simboli per gratificare le nostre coscienze con la nostra indignazione». Questo “antifascismo gratificante ed eletto” non ha saputo vedere i mutamenti radicali che stavano accadendo, non ha capito che vivere esistenzialmente nuovi valori senza conoscerli porta alla nevrosi e all’imitazione stupida di modelli alienati, non ha preso le distanze dall’economia consumista e quindi si è oggettivamente alleato a questo nuovo, onnipermeante, fascismo.

Durante il breve periodo dell’austerity (1973, crisi del petrolio) Pasolini si è perfino illuso che fosse possibile un ritorno indietro e scrisse una poesia a un giovane fascista ideale coi capelli corti invocando una destra sublime, capace di interrompere la slavina consumista: «Difendi, conserva, prega», gli dice, «ama i poveri, ama la loro diversità», ma aggiunge «tu non hai, e non vuoi averlo, un cuore libero, e non puoi essere sincero».

Il gioco del potere

Al centro della sua fantasia in quegli anni sta il romanzo delle stragi, ovvero la strategia della tensione portata su un doppio fronte: prima attribuire la responsabilità agli anarchici e alla sinistra extraparlamentare in funzione anticomunista, poi attribuirla ai fascisti per rifarsi una verginità antifascista, questo il gioco del potere. Ma nell’appunto 126 di Petrolio fa ancora una svolta: il protagonista assiste a un corteo fascista, con tanto di camicie nere e saluti romani, solo che i ragazzi che vi partecipano non sono più quelli sognati, ubbidienti e coi capelli corti; hanno i capelli lunghi come i giovani di sinistra, urlano slogan molto simili, hanno perso il loro fascino virile («avevano barbe carbonare, zazzere liberty, calzoni stretti che fasciavano miserandi coglioni»); e non si tratta più soltanto di ragazzi ma anche di uomini di mezza età, «miseri cittadini presi nell’orbita dell’angoscia del benessere».

L’iniziativa delittuosa del potere ha ormai il carattere di una lotta di classe antioperaia, e utilizza le forme esteriori del fascismo come pochi anni prima aveva concretamente progettato colpi di stato filoamericani e di destra. Ma Pasolini è troppo intelligente per non notare un controsenso: se il “vero fascismo” ha già realizzato la sua rivoluzione tecnocratica e massmediatica, che bisogno ha di servirsi ancora del fascismo archeologico e pittoresco? Perché «montare un enorme macchinario, strutturato in una catena di delitti comuni, per distruggere qualcosa che il potere stesso ha già altrimenti distrutto?». Insomma il fascismo nuovo, a cui anche l’antifascismo retorico partecipa, perché non può fare a meno di quello nostalgico?

Pasolini prova a uscire dalla contraddizione con orgoglio di scrittore, riflettendo che il potere è per definizione pragmatico, incapace di avere visioni, e quindi inadatto a percepire le correnti sotterranee della storia, quelle che si possono cogliere soltanto sganciandosi dalle contese contingenti.

Cinquant’anni dopo

Questo forse troppo lungo riassunto delle considerazioni pasoliniane vorrei che portasse a qualche raffronto con la situazione di oggi, cinquant’anni dopo, ovviamente partendo dalle pesantissime differenze. La più macroscopica, mi pare, è che il benessere della società dei consumi risuona ormai come il canto ammaliatore di una fata lontana: alla euforia interclassista degli anni Settanta (un po’ di polverina dorata per tutti) si è sostituita la cupa brama di trovarsi sul lato giusto di un crepaccio che si allarga sempre di più.

Che cosa c’è ora, invece del consumismo, che sia capace di modificare la psiche e la percezione di sé in modo totalizzante, senza che il mutamento venga percepito con la giusta dose di allarme?

Pure adesso, forse, la vita è più avanti della coscienza e questo scatena nevroticamente urgenza e fragilità. La prima cosa che mi viene in mente, da ultrasettantenne, è il diluvio della virtualità e della vita perennemente online: la realtà non virtuale ha sempre meno importanza e quella virtuale è deresponsabilizzante. Siamo pieni di informazioni che non chiediamo, ingombri di sentimenti che non ci riguardano; onoriamo lo smartphone come un miracolo, ci abituiamo a compiere automaticamente continui gesti di assenso a procedimenti di cui non conosciamo il meccanismo (quante volte clicchiamo su “accetta” solo per non interrompere la nostra curiosità?); pensiamo che le catene di mediazione siano sempre più inutili, che i problemi ciascuno possa risolverli da solo, salvo poi invocare qualcuno che i più difficili li risolva per tutti, in una specie di fiducia per antifrasi.

Viviamo in una solitudine sempre più affollata, di link, di “amici”, di influenzanti e influenzati, consegniamo sbadatamente la nostra privacy salvo volerla recuperare tutta insieme sul singolo dettaglio, con rabbia sproporzionata. Quanto tutto questo, almeno nell’occidente che conosciamo meglio, sta di fatto logorando le radici della democrazia? Desideri di autoritarismo strisciano sottopelle, senza che osiamo chiamarli col loro nome. Il Duce che porta le folle al delirio, “in presenza”, non è più concepibile qui da noi: i social bruciano i Capi in un tempo brevissimo ma altrettanti ne formano e la processione pare inarrestabile come nel tirassegno di un lunapark. È una ginnastica che non fa bene al consenso informato.

L’altro giorno, quando molti commentavano l’attacco di matrice fascista alla Cgil ricordando gli assalti alle Camere del Lavoro di un secolo fa, la cosa che più mi colpiva era che uno degli attaccanti fosse entrato col proposito di riprendere la scena per postare una story su Instagram; la seconda notevole differenza rispetto ai tempi di Pasolini è che allora la cultura consumista e il fascismo sembravano opposti, mentre ora tra fascismo e cultura digitale non pare esserci antagonismo.

Rabbie senza guida

Forse però non è troppo obsoleta la domanda che Pasolini si faceva nel 1974: la destra che ambisce a governare, ovviamente sposando il trend del capitalismo finanziario e dello sviluppo tecnologico (perché senza questo assenso arrivare al governo in un paese europeo pare impossibile), ha ancora bisogno del fascismo folkloristico e nostalgico? I leader giurano che no, eppure nei fatti si assiste a molti casi di marranismo perverso: non sono pochi quelli che si mostrano corretti militanti della Lega o di Fratelli d’Italia restando “fascisti nel cuore” – non bisogna compiere l’errore di sottovalutare (soprattutto presso i giovani) gli aspetti del fascismo vecchio stile che possono attrarre: l’esaltazione della lealtà, dell’amicizia, il sentirsi controcorrente, la fedeltà a valori antichi e mitizzati. Se invece la destra di governo recide con nettezza quei fili, che panorama si prepara? E alla sinistra quanto serve lo spauracchio fascista per compattarsi?  

Nei prossimi anni non mancheranno occasioni per lo scatenarsi di rabbie senza guida; saranno sempre più numerosi quelli che, attratti dai social, prima sceglieranno la bandiera e poi troveranno l’occasione per sventolarla (come accade oggi, confusamente, con la bandiera che ha sopra scritto “libertà”). Mentre i partiti dell’ambito parlamentare saranno occupati a gettarsi in faccia reciprocamente parole come “dittatura” o “fascismo” (“i veri fascisti siete voi”), si formerà a destra, come un tempo si era formata e magari si riformerà a sinistra, una formazione extraparlamentare esperta in infiltrazioni e ribellioni violente. Qualcuno rigiocherà la carta, sbilenca, degli opposti estremismi e speriamo che nessuno, nello scacchiere geopolitico, abbia interesse a fare dell’Europa una zona insicura, debole per le lacerazioni interne a ciascuno stato; allora sì che la strategia della tensione ritornerebbe alla grande.

© Riproduzione riservata