Pubblichiamo alcuna passi tratti dall’autobiografia di Piero Angela Il mio lungo viaggio, 90 anni di storie vissute, Mondadori. Per gentile concessione dell’editore

Il Libro dei perché

Forse una delle prime occasioni di avvicinarmi alla scienza

la ebbi quando mi regalarono l’Enciclopedia dei ragazzi,

dieci bei volumi con un mobiletto contenitore.

Il mio volume preferito, il più consunto, era quello dei “Perché?”.

Probabilmente lì è nato il piacere di capire tante cose, con

spiegazioni semplici. E il piacere di capire è proprio uno

dei segreti per essere attratti dalla scienza.

In fondo, è esattamente quello che ho poi cercato di fare

nel mio lavoro: rispondere a dei perché, rendendo attraenti

argomenti difficili attraverso spiegazioni semplici.

La scienza è piena di cose straordinarie: per renderle interessanti, basta raccontarle nel modo giusto.

Alle elementari ero bravo. Ero il secondo della classe

(con tanto di premio a fine anno). Il primo della classe era il contino Pier Vittorio Barbiellini Amidei. Debolino in ginnastica.

L’insegnante in quarta e quinta elementare era un prete, pur essendo una scuola laica. Si chiamava don Carlo

Ughetti. Era basso e rotondetto.

La sua veste nera aveva una serie interminabile di bottoni sul davanti. Mi sono sempre chiesto se li abbottonasse e sbottonasse tutti ogni volta che la indossava e la toglieva.

Portava gli occhialini alla Cavour, e i suoi occhi erano così chiari e gelidi da incutere paura.

Aveva un ottimo metodo di insegnamento: appena arrivati ci portava in palestra a fare ginnastica e ci faceva salire sulle pertiche, per calmare le esuberanze.

Poi, tornati in classe, ci aspettava un componimento di italiano. Ogni giorno. Ma la cosa straordinaria, per l’epoca, erano gli esperimenti scientifici che il maestro Ughetti realizzava in classe.

Portava lui stesso degli strumenti per spiegarci i vasi comunicanti, la produzione di gas idrogeno per elettrolisi, o per mostrarci il funzionamento di una pila, con la produzione di elettricità. Cose che certamente mi hanno lasciato un segno.

Il jazz

Anch’io volli imparare a suonare. Fu così che i miei genitori comprarono un pianoforte. Purtroppo però successe quello che troppo spesso avviene: l’insegnamento era noioso e punitivo: scale, solfeggi, setticlavio.

A un certo punto, quando arrivava la maestra, io e mia sorella Sandra (coinvolta anche lei in questa avventura) cominciammo a chiuderci in bagno. Fine delle lezioni.

Questo capitava alla maggior parte delle persone che studiavano musica per diletto (e ancora oggi è così). Ho conosciuto persino signorine che una volta arrivate al diploma hanno smesso di suonare!

L’errore di base è che a tutti viene insegnato il pianoforte allo stesso modo, come se tutti dovessero diventare concertisti.

Fare musica per diletto è un’altra cosa: bisogna anzitutto rendere piacevole e gratificante lo studio, e poi fornire le basi, perché chi non ha ambizioni professionali possa divertirsi, da solo o con amici. Arrivando, magari, a creare musica lui stesso.

Fine delle lezioni, quindi. Però il pianoforte, ormai, era stato comperato. E ripresi a suonarlo da solo. A modo mio. E cominciai a divertirmi.

Mi impratichii suonando “a orecchio”, senza spartiti, musiche di vario genere che sentivo alla radio. Il colpo di fulmine fu l’arrivo della musica jazz nel Dopoguerra.

C’era una stazione americana che da Stoccarda, in Germania, ogni sera alle dieci trasmetteva un’ora di jazz. Con un amico eravamo tutt’orecchi, e scoprimmo così i grandi complessi e solisti dell’epoca.

Nel febbraio del 1948 arrivò a Nizza per la prima volta dall’America Louis Armstrong, con la sua famosa formazione

di solisti.

All’epoca per andare in Francia occorreva però un visto e una motivazione. Mi feci fare dal professor Quaranta del Conservatorio di Torino un certificato nel quale si diceva che «lo studente Piero Angela deve recarsi a Nizza per ragioni di studio».

Ottenni il visto per tre giorni, e vissi un sogno a banane e datteri, viste le poche lire che avevo in tasca, frutto dei miei risparmi.

Furono tre giorni fantastici, con l’emozione di vedere dal vivo non solo Louis Armstrong e Sidney Bechet, ma i solisti della famosa formazione “All Stars”, in particolare il pianista Earl Hines.

Intanto avevo cominciato a comperare dischi a Parigi, inviando franchi francesi in una busta a un negozio specializzato, oltre che dando la caccia ai famosi V-Disc realizzati appositamente per le Forze Armate americane.

Grazie a quei dischi imparai a suonare sempre meglio, e diventai un buon pianista jazz. Addirittura vinsi una votazione, per il Piemonte, indetta dalla rivista “Musica Jazz”.

A quel punto ero davvero motivato, e ripresi a studiare seriamente. E tornai dalla mia maestra, che non credeva alle proprie orecchie.

Preparai il quinto anno di pianoforte e diedi l’esame al Conservatorio. Diedi anche l’esame di armonia e cominciai a preparare l’ottavo anno con il Clavicembalo ben temperato, che mi appassionò moltissimo.

Bach lo si capisce a fondo solo se lo si suona, scoprendo le straordinarie architetture delle sue note. Cominciai anche a comporre musiche per documentari: era un’occupazione che mi piaceva molto.

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