Nel recente dibattito sulle indicazioni ministeriali sull’insegnamento della storia ha fatto spesso capolino il tema dell’immigrazione straniera. La presenza nelle aule delle scuole italiane di giovani con background migratorio è stata tirata in ballo sia dallo schieramento politico e culturale che approva le nuove linee guida sia da coloro che intendono contestarle. I primi sostengono che è opportuno, di fronte alla nuova composizione scolastica, rafforzare tutto ciò che può ricondurre all’italianità e alla storia italiana. I secondi sono convinti al contrario che la nuova composizione scolastica debba spingere il personale docente verso un allargamento delle prospettive capace di andare molto oltre i confini della storia nazionale ed europea.

Secondo i primi, la storia deve funzionare come sostegno dei processi di assimilazione di coloro che presentano un background migratorio, mentre gli altri rivendicano la necessità di contribuire a favorire la coesione nell’ambiente didattico e in generale nella società attraverso uno studio della storia incentrato sulla sua visione globale.

Che cosa manca in questa discussione? Molte cose, su cui occorre riflettere.

La circolare del 1990

Manca la voce di chi negli ultimi 50 anni si è già confrontato con la centralità della presenza migrante: docenti, studenti, mondo della ricerca. La scuola italiana si è confrontata da talmente tanto tempo con la realtà dell’immigrazione che risale addirittura al 1990 una circolare ministeriale, la n. 295-1990, dove sono esplicitate le indicazioni finalizzate alla costruzione di una educazione interculturale. Il documento muove da un approccio che intende cogliere l’occasione dell’immigrazione per poter meglio declinare quegli obiettivi più ampi di inclusione che prescindono dalla presenza di alunni di origine straniera e che hanno un valore universale.

Nella circolare del 1990 si legge che «il compito educativo, in questo tipo di società, assume il carattere specifico di mediazione fra le diverse culture di cui sono portatori gli alunni: mediazione non riduttiva degli apporti culturali diversi, bensì animatrice di un continuo, produttivo confronto fra differenti modelli». E continua: «E' qui da sottolineare che l'educazione interculturale, pur attivando un processo di acculturazione, valorizza le diverse culture di appartenenza.

Compito assai impegnativo, perché la pur necessaria acculturazione non può essere ancorata a pregiudizi etnocentrici. I modelli della "cultura occidentale", ad esempio, non possono essere ritenuti come valori paradigmatici». Infine, ricorda la circolare, «ogni intervento che si colloca su questo piano tende, anche in assenza di alunni stranieri e nella trattazione delle varie discipline, a prevenire il formarsi di stereotipi e pregiudizi nei confronti di persone e culture ed a superare ogni forma di visione etnocentrica».

Le migrazioni come eccezione

Nel dibattito odierno sono poi del tutto assenti coloro che in qualche modo sarebbero i destinatari di tali linee guida: quegli “alunni stranieri” che danno così tanto da pensare alle classi dirigenti. I dati del ministero ci dicono che se nell’anno scolastico 1987-88 gli alunni con cittadinanza non italiana erano 8.967, 15 anni dopo erano diventati 239.808, per toccare poi la cifra di 914.860 nel 2022-23. Milioni di bambine e bambini, diventati oggi adulti. Che cosa pensano del modo con cui hanno studiato la storia? Cosa avrebbero migliorato? Cosa consiglierebbero oggi?

Manca una riflessione sul senso dell’insegnamento della storia nella società contemporanea, che vada anche al di là della presenza delle componenti migranti: perché è preferibile un approccio più o meno globale o al contrario più o meno locale? Cosa significa globale e locale? Quali sono i percorsi che possono essere proposti?

Si è detto che nel dibattito sulle linee guida molto spesso mancano le discipline e manca il mondo scientifico. Ma come si studia la storia a scuola? Se la presenza di alunni di origine straniera è così importante nella scuola di oggi, sappiamo per caso quanto e come si studia la storia delle migrazioni? Mettere al centro della riflessione didattica la risorsa della storia delle migrazioni può rappresentare un ottimo strumento per affrontare concretamente gli obiettivi di coesione che tutti chiedono alla scuola.

Oggi, purtroppo, lo studio della storia a scuola affronta in modo limitato la dimensione storica dei processi migratori. Soffermiamoci ad esempio sulla storia contemporanea. La maggior parte dei manuali su cui studiano gli studenti e le studentesse e su cui si formano i loro insegnanti dedica alle migrazioni solo alcuni rapidi riferimenti. Un accenno quando si parla delle conseguenze dell’unificazione dopo il 1861 (catalogando l’emigrazione tra “i problemi” dell’Italia unita), qualche immagine a effetto di porti o navi per l’età giolittiana, ancora qualche battuta dopo il 1945 sul miracolo economico e infine si arriva all’immigrazione straniera, tra barconi e fili spinati.

La dimensione migratoria e la sua presenza nella storia sono considerate come brevi eccezioni e come emergenze. Lo sguardo sulla dinamica ordinaria e strutturale delle migrazioni è del tutto assente. Anche quando si attivano approfondimenti sul tema, i pochi riferimenti disponibili non fanno che perpetuare un approccio puramente emotivo.

Eppure, la bibliografia è ormai ampia. Come pure moltissime fonti. Le stesse biografie di chi popola le aule della scuola italiana (studenti, insegnanti, personale non docente) sono piene zeppe di migrazioni: chi proviene da piccoli paesi, chi proviene da altre regioni, chi da altri continenti. La storia può funzionare efficacemente come terreno di ricomposizione per condividere un approccio verso le migrazioni incentrato non tanto sulla comprensione delle alterità ma innanzitutto sulla comprensione di sé stessi.

Si tratta di un processo di revisione impegnativo, che è già praticato da tanti insegnanti, in maniera però un po’ isolata, come spesso accade. Unire le forze, a questo punto, diventa indispensabile.

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