Delle polemiche sceme di cui è quotidianamente pieno l’internet (o quanto meno la parte presidiata dalla mia scemissima bolla), l’ultima è la più scema di tutte.

Le due attrici protagoniste dell’Amica geniale sono troppo giovani per interpretare ancora Lila e Lenù!, insorgono gli indignados della domenica nelle loro dirette Instagram; in Storia di chi fugge e di chi resta, titolo del terzo capitolo della saga di Elena Ferrante e dunque della terza stagione dell’adattamento ora in onda su Rai 1, si sono laureate e hanno pubblicato libri (Lenù), si sono sposate e poi separate e poi rimesse insieme ad altri e poi cambiato lavoro (Lila)!, pontificano nei loro 280 caratteri su Twitter; insomma, sono giovani donne che vanno per i trenta e invece coloro che le interpretano (Gaia Girace è Lila, Margherita Mazzucco fa Lenù) in due non arrivano a quaranta!, ti notificano in quindici secondi mostrandoti il pallottoliere. Tutto vero: e allora?

Sospensione dell’incredulità

L’amica geniale è il più grande prodotto letterario italiano degli anni duemila (astenersi fan di memoir che durano mezza stagione – e il tempo di qualche tweet in quel caso non indignato), la traduzione televisiva è una delle più grandi serie italiane degli anni duemila, per equilibrio che sa tenere tra cinema di qualità (perdonate il francaciampismo) e racconto che ha l’orgoglio d’essere popolare e generalista.

E il terzo capitolo, il più rischioso sia sulla pagina sia sullo schermo, non fallisce, anzi. Lila e Lenù, si diceva, da bambine (senso lato) diventano donne, incontrano l’amore e insieme la disillusione, trovano la politica, la borghesia, la corruzione degli ideali, la febbre d’emancipazione; e fabbricano – nel piccolo delle loro singole vite e nel largo del sociale e del collettivo – una propria forma di femminismo che è al contempo acerbo e consapevole.

Questo accadeva già nel romanzo. Quanto alla produzione cinetelevisiva, lo splendido regista originale (Saverio Costanzo, con incursioni di Alice Rohrwacher) non c’è più, entra Daniele Luchetti e anche quello poteva costituire, sulla carta, un rischio. E invece non si rintracciano sbavature, la macchina che già andava speditamente da sola aggiunge nuovi elementi che sono felici e funzionali al racconto.

E Luchetti stesso, rispetto al suo cinema recente, sembra allargare lo sguardo, e insieme però tenerlo intimamente ancorato alle due ragazze al centro di tutto; è ancora più giusto ed efficace il continuo canto e controcanto tra le protagoniste ora geograficamente e idealmente separate, ma sempre insieme, sempre legate, in un montaggio alternato di vite che compone, forse, una vita sola.

L’età anagraficamente ancora adolescente di Mazzucco e Girace è un dettaglio facilmente aggirabile, o che quanto meno ci mette di fronte alla solita questione: la sospensione dell’incredulità. Il cinema (parola ampia che ormai si prende tutto) non dovrebbe essere fatto per quello? Se la più parte del mondo ha creduto a Lady Gaga nei panni di Patrizia Reggiani, perché non possono andar bene due ragazze quasi ventenni a impersonare delle quasi trentenni?

Soprattutto se sono così precise nell’intenzione e nell’esito del ritratto, nell’aderenza prima psicologica che fisica ai caratteri in scena. Il principale merito dell’Amica geniale saga letteraria è aver dato corpo, seppur di carta, ad archetipi antropologici e culturali che son parsi a milioni di lettori più veri del vero; il principale merito dell’Amica geniale serie televisiva è aver mantenuto quella dimensione fortemente simbolica, è la scelta di non cedere mai all’iperrealismo, ma anzi di amplificare quella componente quasi astratta nella confezione (i set di cartapesta come nella vecchia Cinecittà), nella scrittura, pure nella recitazione.

And Just Like That...

Lila e Lenù sono archetipi così forti che vivono anche da soli, e Girace e Mazzucco sembrano averlo perfettamente compreso: sono strumenti al servizio di un mondo e di un’idea, e mai fini (cosa che nel cinema e nella serialità italiana, per vanità di interpreti che restano sempre scollati da personaggi già di loro spesso inconsistenti, non avviene quasi mai: ma questa è un’altra storia).

Mi ricordano un’altra scemissima polemica recente: quella su And Just Like That…, il remake/sequel/reboot di Sex and the City massacrato pressoché ovunque. Pur coi suoi (però autoironicissimi) limiti, la serie andata in onda da noi su Sky gioca con quella stessa idea dell’archetipo: Carrie, Miranda e Charlotte esistono – e continuano a risultare convincenti – al di là dell’età, dell’aggiornamento al tempo corrente, della credibilità (era credibile, già a fine anni Novanta, che la signorina Bradshaw avesse quel guardaroba, a fronte di una mera rubrichetta scritta per un giornale?

No, eppure ci siamo giustamente cascati tutti). In And Just Like That… riesce a essere presente, appunto in quanto archetipo, persino la Samantha che fisicamente non c’è più, causa bisticci tra attrici e forfait della sua interprete Kim Cattrall. L’amica geniale è ormai patrimonio globale, e così lo è diventata Elena Ferrante. A marzo, dopo l’anteprima all’ultima Mostra di Venezia e i successi che sta raccogliendo in questa Awards Season (agli Oscar arriverà con tre candidature), sarà nelle sale italiane La figlia oscura, esordio alla regia di Maggie Gyllenhaal tratto dal romanzo di Ferrante uscito nel 2006.

La vicenda è trasferita dalla nostra costa ionica a una Grecia popolata solo da inglesi e americani, ovvero un grande cast (Olivia Colman, Dakota Johnson, Jessie Buckley, Ed Harris, Paul Mescal) che però pare davvero scollato da tutto; in generale, si avverte una forzatura che, in questo caso, rende assai difficile sospendere l’incredulità. È una chiosa per dire che non tutte le storie devono restare laddove sono nate, che si può tradire il proprio Dna quando il racconto è universale.

Ma anche per confermare che, a volte, il patrimonio genetico è invece un elemento evidente e naturale: senza quello di Girace e Mazzucco, e dunque delle loro Lila e Lenù, non esisterebbe L’amica geniale che vediamo in tivù. E non sarà qualsivoglia polemichetta di quindici secondi a convincermi del contrario.

 

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