Il meridionale può accettare con aplomb churchilliano tutto, ma che il pranzo di nozze non preveda nemmeno una bracioletta, una spigoletta, una triglietta, una costatina, una bombetta, un fruttino di mare, un’ostrichetta, un riccetto, una cozzetta pelosa… quello è inconcepibile
«Zio, ti devo dire una cosa importante…». È una di quelle telefonate che nella vita non si vorrebbe mai fare, perché non esistono modi indolori per dare certe notizie ai propri familiari meridionali. L’unico è dire le cose come stanno, senza girarci attorno. Volendo, in presenza di cardiopatie, si può avere la premura di invitare il parente meridionale a sedersi con un bicchiere d’acqua fresca a portata di mano, ma poi è meglio andare dritti al punto: «…ecco, zio, il pranzo di nozze… sarà vegetariano».
“Pranzo di nozze nel sud Italia” è un tema insidioso di cui scrivere, un terreno infido, dove è facile inciampare in qualche cliché e precipitare in uno dei tanti luoghi comuni di cui è disseminato, per poi ritrovarsi nell’affollatissimo girone infernale dei comici italiani che non ce l’hanno fatta, condannati ad ascoltare per l’eternità le stesse battute trite e ritritissime sulle migliaia di invitati, gli abiti catarifrangenti, la durata interminabile, il menù da settanta portate, i cantanti neomelodici eccetera eccetera, mentre da lassù George Carlin, Lenny Bruce e Bill Hicks osservano senza capire.
La vera prova di coraggio
Nemmeno Checco Zalone aveva intuito che la vera prova di coraggio, per il genitore meridionale, non è ostentare disinvoltura quando tuo figlio ti confessa che vuole sposare un uomo (cosa che non riusciva alla signora che, in Cado dalle nubi, ovviamente sveniva per lo shock), ma quando ti dice che il pranzo di nozze sarà vegetariano.
Perché se l’omosessualità è ormai accettata anche a sud del Po e non scandalizza più nessuno, tranne alcuni politici e qualche decina di milioni di italiani, l’ultimo baluardo del patriarcato gattopardesco, la roccaforte del terronismo, è il cibo, anzi, la carne.
Il meridionale può accettare con aplomb churchilliano che il suo primogenito, sangue del suo sangue, si sposi con un maschio, o che la sua principessa convoli a nozze con una femmina, ma che il pranzo di nozze non preveda nemmeno una bracioletta, una spigoletta, una triglietta, una costatina, una bombetta, un fruttino di mare, un’ostrichetta, un riccetto, una cozzetta pelosa… quello è inconcepibile.
«La carne è carne»
«E vabbe’…», risponde con forzata disinvoltura mia madre, appresa la ferale notizia, e poi, col tono di chi spera: «Ma gli altri potranno comunque ordinare quello che vogliono, no?». No madre, il menù sarà vegetariano per tutti. Silenzio.
E io so che l’onda sismica di preoccupazione che si irradia dall’epicentro del suo silenzio riguarda gli altri. Suo marito e il fratello di suo marito. Ovvero mio padre e mio zio, due che sono stati bambini negli anni ‘50 e che, finché era vivo, hanno sentito il loro papà declamare come un mantra la tautologica affermazione «la carne è carne», con cui si riferiva alla carne non in senso metonimico ma letterale, ogni volta che, durante un pranzo domenicale, seduto a capotavola (o “alla patriarcale”, come si direbbe oggi), la femmina servente di turno, moglie o nuora, gli metteva davanti un piatto contenente capretto, o agnello al forno, salsiccia, polpettone, costata, marretto, braciola, bombetta...
Dietro quella frase c’è la vita dei miei nonni, bambini a inizio Novecento, cresciuti quando carne e pesce erano lussi che raramente si potevano permettere, persone non certo ricche che, dopo la fine della guerra, nonostante il Boom e gli anni Ottanta e il benessere diffuso, si erano abituati a quasi tutti i “lussi” della modernità, dalla cucina a gas al frigorifero alle automobili al telefono alla tv a colori Brionvega, ma non all’apparizione della carne in tavola. Quella era sempre rimasta una gioia, un evento stupefacente, ai limiti del miracoloso pur verificandosi come minimo ogni domenica, il sangue del filetto che se la giocava con quello di San Gennaro.
Di padre in figlio
Il dogma «la carne è carne» si è trasmesso anche ai loro figli, ovvero mio padre e i miei zii, la cui passione per la ciccia, negli anni, è stata mitigata dalle attenzioni culinarie delle rispettive mogli che, amandoli, erano interessate a conservarli in salute oltre che in vita. Forse l’assenza dell’oggetto del desiderio ne ha ingigantito l’aura ai limiti dell’aureola, facendo assurgere la carne alla dimensione sacramentale di un’ostia laica, attraverso la cui assunzione, in compagnia e con un buon vino, si compiva la piena e completa comunione conviviale. Per questo, credo, pur avendone ridotto il consumo, la carne, e per estensione anche il pesce, è rimasta per loro l’elemento imprescindibile di ogni pranzo che si rispetti. Figuriamoci un pranzo di nozze.
E non sto parlando di una famiglia stile Gomorra, con le case piene di statue di leoni in gesso, poltrone rococò leopardate e rubinetti dorati. Sto parlando di persone che si sono laureate quando le lauree ancora non si trovavano nei sacchetti delle patatine, uomini e donne che leggono libri e perfino i quotidiani cartacei, professori, insegnanti, sociologi, ascoltatori di jazz, classica e folk psichedelico inglese… Eppure: la carne è carne.
Il silenzio dell’amore
Mia madre, interdetta, resta dunque in silenzio. Quel tipo di silenzio che può essere generato solo dall’amore di una madre meridionale per il figlio, un sentimento talmente incondizionato e assoluto da portarla ad accettare qualunque cosa, persino un pranzo di nozze vegetariano che, probabilmente, ci inimicherà per sempre il resto della famiglia, facendo di noi i reietti a cui gli altri parenti, i normali, si rivolgeranno definendoli “quelli”, un amore che vincit omnia e la porta a tacere, a farsi da parte, disposta a pagare il prezzo della lettera scarlatta (la “V” ovviamente) «purché tu sia felice». Mio zio, uguale: ricevuta la notizia la butta sull’ironia, prova a fare il disinvolto ma è spiazzato, e alla fine, dall’altra parte del telefono, sento ancora lo stesso silenzio.
Il ristorante è piccolo, lo gestisce una coppia giovane, talentuosa e piena di energia, lui in cucina lei in sala, su cui, credo, presto splenderà la stella Michelin. Noi siamo in nove e il tavolo è quadrato, geometria democratica che impedisce sedute “alla patriarcale”, così, su un lato, i due patriarchi, mio padre e mio zio, si stringono uno all’altro, sostenendosi enfaticamente per far vedere che loro sono uomini di mondo che non temono la verdura, e facendosi coraggio mentre vengono obbligati ad addentrarsi su questo pianeta ostile, esposti agli attacchi di lattughe e sedani rapa. Un pianeta senza triglie.
Sono la cosa più vicina a “Totò e Peppino a Milano col colbacco” che abbia mai visto: all’arrivo di ogni portata, questi due distinti signori di 81 e 79 anni sollevano verso la ragazza che descrive il piatto lo stesso sguardo di Alberto Sordi, vigile romano trasferito a Milano e assalito da “el magùn”.
Per fortuna, più che ‘l dolor poté ‘l digiuno e, complice la maestria dello chef, l’amore e l’ironia, i due si prestano al gioco, si danno di gomito, fanno battute da liceo («Se si mette male sappi che in tasca ho un panino d’emergenza col capocollo di Martina Franca», e alla cameriera: «Ora può portare le costate di maiale, ché il contorno lo abbiamo già mangiato»), se non proprio da scuole medie quando mio zio si rifiuta ostentatamente di mangiare i germogli di pisello per via del nome.
E mentre i denti di mio padre litigano con l’insalata cotta, suo fratello si fa fotografare nell’atto di portarla alla bocca, come quei turisti occidentali che in Thailandia fanno la foto fingendo di mangiare gli scorpioni fritti.
Nel gineceo sul lato opposto del tavolo, intanto, le donne (loro entusiaste per davvero) si godono sia il cibo strepitoso sia lo spettacolo di arte varia e, tra una portata e l’altra, ridono fino alle lacrime alla vista di quei due esemplari di maschio meridionale che, per amore della nuora vegana e del figlio-nipote che prova a seguirla su quella strada e addirittura se l’è sposata, si sono prestati a questa esperienza per loro estrema. Una cosa divertente che non faranno mai più ma che, lo ammettono contenti, non dimenticheranno. Alla fine, mio zio: «Ma non potevi sposare una massaia?!».
© Riproduzione riservata