Intervista a Michele Ruol, autore di Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia (Terrarossa edizioni) opera prima semifinalista allo Strega. Attraverso una prosa essenziale e poetica, lo scrittore affronta il tema della perdita, perdita di ciò che si ama, perdita di senso, come occasione di rinascita
Nel suo romanzo d’esordio, Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia (Terrarossa edizioni 2024), Michele Ruol compone, con una scrittura intensa e lirica, un catalogo – appunto: un inventario – di oggetti che sopravvivono. Oggetti di uso comune, della quotidianità più anonima, che sono le sopravvivenze e, insieme, gli smarrimenti che si annidano nel profondo di un mondo ferito. Attraverso una prosa essenziale e poetica, Ruol affronta il tema della perdita, perdita di ciò che si ama, perdita di senso, come occasione di rinascita.
In semifinale al premio Strega di quest’anno, Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia è un romanzo meraviglioso che, per la sua struttura, la sua delicatezza e potenza, è tra i migliori esordi letti quest’anno.
Nel romanzo il disastro che si abbatte sulla famiglia non è centrale. Lo è, invece, la vita di chi rimane: centrale è la vita dei superstiti. Ruol, perché raccontare una storia di sopravvissuti?
Volevo che ad avere un ruolo di primo piano fosse la vita. Il dolore c’è, il lutto c’è, ma c’è pure la luce, la speranza. Tant’è che il disastro, come l’ha definito lei, l’ho esplicitato già nell’incipit: è il punto di partenza, non d’arrivo.
Dunque?
A semplificare in modo estremo, questo romanzo è una storia d’amore tra un uomo e una donna, tra un marito e una moglie, un padre e una madre, costretti ad attraversare un’esperienza orribile, che li travolge e stravolge.
Qual è, quindi, il ruolo di questa esperienza?
Da scrittore, mi interessava vedere come possiamo tutti reagire in modi anche molto diversi a un medesimo evento doloroso. Madre e Padre vivono la stessa tragedia, però le loro reazioni sono lontane - per cui le loro strade divergono. Dipende tutto dal nostro vissuto, dalle nostre capacità, dalle nostre risorse.
Il romanzo si muove seguendo un inventario. L’inventario di ciò che resta della vita di questa famiglia precedente al disastro.
In un modo o nell’altro gli oggetti delle nostre case raccontano la nostra storia.
Lei prova una particolare affezione per gli oggetti del suo passato?
Non sono un accumulatore compulsivo, ma ci vedo una certa bellezza. Butto ciò che non credo abbia, e mai avrà, un valore sentimentale, tengo ciò che un giorno potrebbe farmi tornare a un periodo della mia vita cui sono affezionato.
Io sono un grande accumulatore. Tengo tutto – o quasi. Spesso tengo cose inutili, e magari brutte, perché ho la sensazione che un giorno, tornando a guardarle, mi diranno qualcosa. A volte, credo che di certi oggetti non debba liberarmi perché hanno una sorta di valore magico.
Su questo siamo d’accordo. La loro magia sta nella capacità di riportarci a dei momenti della nostra vita di cui abbiamo scordato l’atmosfera, il sentimento. Ci basta il tatto o l’odore per riportarci a tempi perduti. È la memoria emotiva che viene sollecitata: questi oggetti sono come dei portali nel tempo.
Ruol, lei ha degli oggetti del genere?
Certo. Libri, soprattutto. Ma pure cose appartenute a mia nonna: rivederle mi fa tornare a lei.
Ad esempio?
Delle scatoline di latta. Lei ci teneva dolcetti o caramelle e io oggi le uso come portapenne, il più delle volte. Hanno ancora l’odore di quel che ci conservava lei, e quando lo sento è come se tornassi indietro nel tempo.
Mia nonna masticava sempre delle gomme alla fragola, quand’ero bimbo emanava spesso quel profumo e oggi, a distanza di parecchi anni, quando sento quell’odore torno in casa sua, nella sua cucina.
La magia di questi oggetti ha molto a che fare con la sfera sensoriale. Sollecita quella, nella gran parte dei casi.
Ma gli oggetti del nostro passato per certi versi sono un freno. Rallentano il processo di superamento del dolore, dell’elaborazione del lutto. Lasciar andare ciò che ci ha provocato una tale sofferenza è anche un atto dovuto a noi stessi, credo, e legarci tanto a questi oggetti, forse, non ci è d’aiuto.
Va definito anzitutto cosa si intenda per lasciar andare. È un tema del romanzo e lo è soprattutto per Madre, che il problema se lo pone molto. Lei, difatti, si ostina a rimanere nel passato. Va avanti, certo. Il tempo scorre per tutti, e tutti dobbiamo farci i conti, per cui è costretta a procedere lungo il corso della sua vita, ma sempre con le spalle rivolte al futuro, continuando a tenere gli occhi al passato. Per la maggior parte del romanzo lei pensa che se potesse disporre degli anni che le restano vorrebbe solo continuare a rivivere, ancora e ancora, sempre gli stessi anni, cristallizzata in un periodo della propria esistenza. Lei, appunto, non vuole lasciar andare. Finché a un certo punto qualcosa cambia, e ricomincia a progettare, fare delle cose per sé. Cosa vuol dire, questo? Che ha dimenticato i figli? No, naturalmente: la tragedia che l’ha investita io credo non possa essere eliminata dalla memoria di nessuno. Piuttosto è come se quel dolore, quel pezzo di vita, venisse inglobato nella sua esistenza da lì in avanti. Come quegli alberi che crescendo inglobano un vecchio cancello, una vecchia recinzione che avrebbe dovuto contenerli. Ecco, è qualcosa di simile.
Lei sai farlo?
Non lo so. Me lo auguro.
A proposito della genitorialità, allora – centrale nel libro. In un’intervista lei ha detto che prima di diventare padre era più forte.
Ho molto desiderato diventare padre, e sognandolo ho sempre immaginato la gioia che sarebbe arrivata con mio figlio, mia figlia. Quando poi sono davvero diventato genitore il sentimento è stato molto, molto più grande di quando mi sarei aspettato - o di quanto fossi capace di immaginare, in effetti. Una felicità enorme, incontenibile. Al tempo stesso però è arrivata pure una grande paura, una certa fragilità: quella creatura così piccola era mia responsabilità.
È arrivata subito, questa fragilità?
Sì, ma l’ho avvertita soprattutto con il mio secondogenito. È nato subito prima che scoppiasse la pandemia, io sono un anestesista, per cui in quei periodi ero in prima linea, molto impegnato, e vivevo nel terrore di trasmettergli il virus, di farlo star male. Non lo abbracciavo, gli stavo a distanza. È stato difficile.
Lei ha scritto un romanzo che parte dalla morte di due figli: la sensazione è, alla luce di ciò che mi ha detto, che sia anche un tentativo di esorcizzare la paura di perdere i suoi, di figli.
Sì, probabilmente è così.
Tornando al libro. Non ha dato dei nomi propri ai suoi protagonisti ma li ha indicati con i ruoli che hanno in famiglia – Madre, Padre, Maggiore e Minore. Perché?
Da una parte perché volevo rendere quanto più possibile universale la storia. Dall’altra perché siamo tutti i ruoli che ricopriamo. Non dico niente di nuovo, da Pirandello in poi, e anche da prima, questa teoria l’abbiamo assimilata, ma mi piaceva l’idea di scrivere dei ruoli. I ruoli in cui viviamo servono agli altri per definirci, ma anche a noi stessi – per definirci, appunto.
C’è un ruolo in cui si sente particolarmente a suo agio?
Nel ruolo di padre sto bene, e anche in quello di marito. Non che abbia smesso di pormi continue, assillanti domande sulla paternità, la fragilità di cui parlavo resta, però mi piace.
Ruol, l’ultima domanda che le faccio è sul premio Strega. Il suo romanzo è uscito ad aprile dell’anno scorso e a un anno di distanza ha ricominciato a parlarne perché è in dozzina allo Strega. Che effetto le fa?
Sono felicissimo. Mi sembra di vivere un sogno. Il libro l’anno scorso è stato proposto al Campiello, dove Veltroni lo ha letto e apprezzato. Non ha vinto il premio Opera Prima e così quest’anno lo ha proposto allo Strega. Che sia tra i libri semifinalisti è ancora assurdo, per me. Una sorpresa gigantesca. A ogni modo, il sentimento principale è di gratitudine per l’editore e per Veltroni.
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