Salvare la propria anima non è forse la forma più alta di egoismo concepita dall’Occidente? È il tema narrativo di La giusta distanza dal male, romanzo d’esordio di Giorgia Protti, una storia appassionante e un grido di dolore sulla situazione della sanità pubblica. Riguarda tutti, ma dovrebbe leggerlo in particolare chi ci governa e amministra
La vita è un casino, i libri sono tanti, come faccio a far capire che è uscito un romanzo che vale la pena di leggere?
Io che non sono un influencer e non vado in televisione ho solo le parole a disposizione. Ecco, posso partire da qui. Anche Giorgia Protti, l’autrice, aveva solo le parole a disposizione. È una cittadina come noi, ha fatto il medico in un Pronto soccorso, e ha usato le parole, la letteratura, l’editoria per raccontare al mondo una storia appassionante che è anche un grido di dolore sulla situazione della sanità pubblica italiana. La letteratura ha questa forza. Con i suoi enzimi narrativi, con i personaggi e le trame, rende universali le esperienze personali, diffonde le verità dissidenti, ne moltiplica la potenza per mettere in comunicazione le persone e scuoterne gli animi.
La giusta distanza dal male, Einaudi, racconta di una dottoressa che lavora in un Pronto soccorso. Non uno qualsiasi: il Pronto soccorso di un grande ospedale alla periferia di una grande città; in Italia, oggi. La situazione è così pesante che questa giovane donna è sul punto di crollare, nel fisico e nel morale; ed è lì, quando sta per cadere a pezzi, che incontra il male in persona. È mezzanotte, lei è appena uscita da un turno di lavoro ordinariamente massacrante: nel parcheggio buio dell’ospedale, popolato da loschi abusivi e spacciatori, non viene a soccorrerla un angelo custode, no: a darle ascolto è la sua controparte diabolica, con tanto di ali nere. Non odiatemi per averlo anticipato: lo si viene a sapere già a pagina due. Quella del diavolo custode (ma sono io che qui lo chiamo così), fiancheggiatore e tentatore della professionista in burn-out, è l’invenzione fantastica che strania questo romanzo realistico e contribuisce a renderlo memorabile.
L’interessante e l’indispensabile
Sono sincero: se questa fosse stata un’indagine giornalistica sulla situazione dei nostri Pronto soccorso non so se l’avrei presa in mano. Invece la trama romanzesca mi ha risucchiato, al punto che La giusta distanza dal male l’ho letto e riletto. Non sto esagerando. Mi imporrò di non strillare iperboli. Dirò che questo romanzo, secondo me, è molto di più di un libro interessante.
Di cose interessanti in giro ce ne sono tante. Non solo nell’editoria. Scrollando tra feed e podcast, accendendo la radio, si scoprono biografie di scienziati folli, musiche inaudite e inascoltate, funghi intelligenti, polpi geniali. La vita è spettacolare, per chi si accontenta dell’interessante. Eh, ma proprio per questo lì in mezzo si fa ancora più fatica a scovare ciò che ci è indispensabile (sarà perché non ho più tutta la vita davanti, ma l’interessante non mi interessa più; cerco l’indispensabile). Lettore, lettrice, ecco allora il mio giudizio: questo è un libro indispensabile. Per farlo sapere più che posso ho già scritto anche la quarta di copertina del romanzo, firmandola con il mio nome e cognome (dovevo dirvelo, per correttezza).
Uno squarcio sulla realtà
La giusta distanza dal male apre uno squarcio sulla realtà. I nostri sono gli anni degli assalti ai Pronto soccorso. Pazienti esasperati, famigliari inviperiti, sale sfasciate, attrezzi distrutti, medici e infermieri minacciati, picchiati, accoltellati.
Il Pronto soccorso è come un poro epidermico, un varco sempre aperto fra la cittadinanza e le istituzioni. È uno dei servizi di prossimità dello Stato: uno dei suoi “sportelli”, come gli enti locali e la scuola. Ed è su quelle propaggini sensibili che lo Stato scarica le proprie responsabilità, lasciando che si inneschino lì i conflitti, e che a vedersela con i cittadini siano i suoi funzionari di prossimità (medici, insegnanti, vigili, assistenti sociali, impiegati sportellisti). È questo il valore politico del romanzo di Protti. Chi ci governa e amministra, a tutti i livelli, dovrebbe assolutamente leggerlo.
Nel libro c’è il diavolo, ma nel corso dei capitoli, mentre apprendiamo in che condizioni si lavora nei Pronto soccorso dei nostri ospedali, constatiamo che il male non è personale, è sistemico.
C’è la gente che soffre: gente che si è fratturata, che è stata presa a pugni e ferita, che si è sentita male senza avvisaglie e scopre di punto in bianco di avere una malattia incurabile, che salta la trafila delle prenotazioni di visite mediche, che cerca di strappare un certificato compiacente per farsi una settimana di mutua a casa.
E c’è la sofferenza del personale sanitario, cronicamente sottodimensionato, insufficiente nonostante la massima dedizione. Un solo finesettimana libero al mese. Ritmi sonno-veglia sconvolti dai turni di notte. Decisioni capitali per la sopravvivenza di un paziente da prendere di corsa alle quattro del mattino, quando il cervello imbambolato galleggia a malapena in una pozzanghera di caffeina. Giorni di ferie che diventano un involontario attentato al complicatissimo castello della distribuzione dei turni, perché costringono i colleghi a farsi in quattro per supplire alla tua assenza. Impossibilità di avere una vita fuori di lì. Amori e amicizie che si sfarinano, perché chi ti sta accanto non accetta che per la terza volta di seguito non ti presenti alla nostra cenetta fuori: allora lo fai apposta! No, non lo fai apposta. È che lavori al Pronto soccorso.
Casi clinici eccezionali
Come glielo dici, ai figli di una paziente, che la mamma non sapeva di avere un tumore all’ascella e che per lei ormai non c’è niente da fare? Come ci resti quando, tutta contenta, torni con i risultati del test da una ragazza che non si spiegava i propri malesseri, le riveli che è incinta e lei, immediatamente, ti chiede come fare per sbarazzarsi del feto? Come ti trattieni quando ti insultano, quando non capiscono perché devono rispettare la coda delle urgenze più gravi, quando ti mettono le mani addosso perché sono disperati e se la prendono con te, come se fossi tu la responsabile della malattia che hanno appena scoperto di avere?
Il romanzo racconta lo stress, l’esaurimento dei medici, degli infermieri, degli operatori sanitari e la pena dei pazienti. Raffigura vividamente come si sta in quelle sale in cui non esiste la luce naturale, e fra le decine di barelle dell’OBI (l’Osservazione Breve Intensiva, terra di mezzo fra ricovero, terapia e dimissioni). Lo sguardo di Protti è limpido e pietoso, e proprio questo è alla radice del suo sconforto: esaminare, interagire, intervenire, dialogare per diagnosticare, mettere le mani nella sofferenza dei corpi e delle anime fa troppo male a chi soccorre e cura. A tenerla in piedi c’è il senso del dovere, l’autocoscienza (la scrittura!) e una velatura di umorismo: la giusta distanza dal male, appunto.
I casi clinici che Protti racconta sono eccezionali. A lasciare attoniti è che si tratta di un’eccezionalità ordinaria, quotidiana. Si riconosce l’ammirazione per Bulgakov (le Memorie di un giovane medico) e la conoscenza di Adam Kay (Le farò un po’ male, Lastaria edizioni; altro libro indispensabile). Quanto al diavolo, se ovvio è il richiamo al Woland del Maestro e Margherita, c’è anche Il diavolo zoppo di Lesage, che tre secoli fa scoperchiava i tetti di Parigi per far vedere come vivono le persone: al Lucifero di Protti capita di mostrare alla protagonista che cosa succede alle anime quando perdono il contatto con il bene. I varchi per scrutare l’inferno contemporaneo sono i cessi degli autogrill, le mense aziendali, i capannoni dismessi di periferia.
L’egoismo occidentale
Potrei analizzare la bellissima e sorprendente seconda parte del romanzo, riassumendo in che cosa consiste la tentazione di Lucifero: un simpatico cazzone tabagista, che di satanico non ha solo le ali membranose; si presenta sempre in jeans, maglietta da fan dei Led Zeppelin, AC/DC, Nirvana, Rolling Stones (parodia dei cliché sul rock satanico). Ma il libro non lo avete ancora letto, non posso entrare in dettagli: peccato, perché se ne ricaverebbe un’indispensabile meditazione esistenziale e perfino teologica. Dico solo che il tema narrativo sviluppato da Protti io lo vedo così: salvare la propria anima non è forse la forma più alta di egoismo concepita dall’Occidente?
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