Dall’aprile di quest’anno il gruppo Immaginazione internazionale dei sentimenti anti-nazionali anti-imperialisti (Iiaaf) ha organizzato delle proteste al MoMA di New York. Sul loro sito web proclamano di scioperare perché possa «emergere qualcosa di diverso sotto il controllo dei lavoratori, delle comunità e degli artisti più che dei miliardari». Questa coalizione di recente formazione comprende collettivi di artisti, attivisti ed ex dipendenti del museo. Dichiarano di rifiutare l’elitarismo, la gerarchia, la disuguaglianza e il razzismo del MoMA. Grazie alla segnalazione su Hyperallergic, sito web ampiamente seguito, le proteste hanno ricevuto molta attenzione.

L’Iiaaf, un gruppo relativamente esiguo, non ha interrotto la vita quotidiana del museo per la maggior parte dei giorni lavorativi. Nonostante questo, cinque membri del gruppo sono stati banditi dal museo in via definitiva. A quanto ne so le proteste non hanno avuto alcun effetto sulla politica locale, tanto meno su quella nazionale. Le questioni poste rivelano però problemi inerenti ai nostri musei.

In una città in cui il salario minimo è di quindici dollari l’ora, il biglietto d’ingresso al MoMA per un adulto costa venticinque dollari. Secondo l’ultimo censimento solo poco più del 42 per cento della popolazione di New York è bianca, escludendo ispanici e latini. Eppure al MoMA i visitatori sono nella stragrande maggioranza bianchi economicamente privilegiati.

Essere astorici

La forza del MoMA, oltre alla sua collezione, è in parte dovuta alla capacità di dare ascolto alle critiche. Glenn Lowry è il direttore dal 1995. Quando nel 2015 lo ho intervistato insieme a Gaby Collins-Fernandez e Joachim Pissarro per Brooklyn Rail ha detto: «Penso che la grande differenza tra un luogo come il Museum of Modern Art e un luogo più storico o un’istituzione universale è che quelle istituzioni iniziano dalla premessa di essere storiche, noi invece iniziamo dalla premessa di essere astorici, dalla premessa che la storia è un sottoprodotto di ciò che facciamo».

In tempi recenti il MoMA si è adoperato per far esibire donne e artisti non bianchi. Ora le richieste sono maggiori. Nel 2010 Goldman Sachs, la società di investimento globale, ha commissionato un murale lungo ventiquattro metri per l’atrio della sede di New York. L’artista prescelta, Julie Mehretu, è una rinomata pittrice americana le cui immagini di linee interconnesse sembrano rappresentare astrattamente l’attività di Goldman in tutto il mondo. La pubblicità ha rimarcato che Mehretu è nera e gay.

In effetti nel sito si cita una frase che suona come un proverbio cinese «Le donne reggono metà del cielo», una frase che la sinistra della mia generazione associa a Mao Zedong. In quella occasione Mehretu ha detto: «Non vedo (Goldman Sachs) come un’istituzione malvagia, ma come una parte del sistema più ampio di cui tutti partecipiamo. Ne facciamo tutti parte». Una dichiarazione simile al MoMA avrebbe potuto provocare proteste. Nell’edificio di Goldman, infatti, il pubblico non poteva entrare per guardare adeguatamente il dipinto di Mehretu.

Goldman è spesso molto criticata dai liberali e dalla sinistra. Questa banca ha ripetutamente pagato multe multimiliardarie per transazioni illecite. Rispetto al personale del MoMA i dipendenti di Goldman sono estremamente ben pagati. A differenza del MoMA, Goldman, che è un’azienda privata, produce un effetto evidente e immediato sulla vita economica.

I musei come il MoMA invece, a differenza delle società di investimento, sono spazi pubblici e quindi molto vulnerabili alle proteste. Il mondo dell’arte di New York dipende economicamente da collezionisti e donatori super ricchi, molti dei quali sono conservatori. Il MoMA ha bisogno di finanziamenti ingenti, soprattutto se vuole continuare a rivedere il suo canone. Ma chi pagherà?

Un cambio radicale

Recentemente le preoccupazioni politiche sul genere e sulla razza hanno avuto molto spazio sui giornali. I gay volevano potersi sposare e i neri essere riconosciuti come cittadini a pieno titolo. Queste richieste possono essere soddisfatte. Al contrario, le controversie al MoMA vanno proprio al cuore del funzionamento di questa istituzione.

Gli attuali amministratori del MoMA si trovano in una posizione complicata. Quando in precedenza è stato chiesto loro di presentare più artisti di colore e più donne, tali richieste che inizialmente potevano sembrare radicali, potevano essere soddisfatte. Ma ora si chiede al museo, come dice Iiaaf online, di smembrarsi «alla luce della sua storia dannosa: determinare i meccanismi di cessione e trasferimento di beni, ridistribuzione della proprietà e riutilizzo delle infrastrutture; disporre fondi per le riparazioni… e per il ripristino della terra indigena; sostegno supportato per la giusta transizione dei lavoratori verso l’autogestione cooperativa e le economie solidali».

In un certo senso la richiesta che il MoMA riveda radicalmente la sua politica fa parte della tradizione. I grandi cambiamenti sono avvenuti quando il museo ha dato a Jackson Pollock e agli altri espressionisti astratti un posto importante nella collezione permanente. Poi una generazione dopo, ulteriori cambiamenti radicali si sono verificati quando Andy Warhol ha acquisito quello status canonico.

La novità ora è che non viene dato un argomento a favore di un cambiamento nella pratica attuale. Si afferma che il collezionismo d’arte contemporanea dovrebbe essere abbandonato perché dipende troppo dai miliardari che controllano le istituzioni che sostengono. L’unica cosa che soddisferebbe completamente l’Iiaaf è un cambiamento radicale nell’intera cultura economica americana. Questa è una richiesta enorme. Nella nostra intervista Lowry ha detto: «L’idea di museo sta cambiando radicalmente. E spero che saremo in grado di stare al passo e di trarre vantaggio da questi cambiamenti». Questa è anche la mia speranza.

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