Jim Kripps e Tessa Berens stanno tornando da Parigi. Max Stenner e Diane Lucas li aspettano assieme al bizzarro Martin Dekker. Il programma della serata è vedere in compagnia il Super Bowl LVI del febbraio 2022. «Birra, whisky, noccioline, sapone e una bibita gassata» sono pronti sulla tavola. Nel «mobile bar» c’è il «Window Jane, un bourbon invecchiato dieci anni in botti di rovere americano». Ma qualcosa va storto: mentre l’aereo di Jim e Tessa è costretto a un atterraggio di fortuna presso Newark, lo schermo del televisore nell’appartamento di Manhattan diventa improvvisamente nero. Nessun segnale, nemmeno sul display dei cellulari. La tecnologia è scomparsa. Cosa rimane? Be’, innanzitutto i nomi arcani dei protagonisti che fluttuano, rimbalzano sulla pagina come un cembalo tintinnante. 

La quarta guerra mondiale

È forse necessario valutare l’ultimo romanzo di Don DeLillo, Il silenzio (Einaudi, traduzione di Federica Aceto) non tanto dal punto di vista stilistico-tematico – è un romanzo larvale, in forma di embrione, se non un vero e proprio racconto di lunghezza cechoviana – o in relazione alle sue opere precedenti (Mao II, Underworld, Zero K), quanto per il suo modo di impostare un linguaggio, o addirittura il linguaggio. Si può etichettare Il silenzio come “romanzo post-apocalittico” sul modello de La strada di Cormac McCarthy? Certo. Gli ingredienti ci sono tutti. Eppure, da abile venditore dei suoi stessi traumi qual è DeLillo, il setting, ossia l’ambientazione, potrebbe funzionare come mero aspetto esteriore. Un involucro, e niente più.

Insomma, il reale messaggio del testo non sarebbe nel filone cataclismatico com’è stato per Wells, Orwell, Huxley. O almeno non soltanto in quello. Il cuore del libro si può ravvisare anche altrove.

Proviamo umilmente con questa ipotesi e torniamo sulla trama. Jim è un «perito liquidatore presso una compagnia di assicurazioni». Tessa, sua moglie, scrive poesie spesso pubblicate in rivista e si dedica a «curare i contenuti per un sito di consulenza». L’altra coppia: Max si occupa di ispezionare gli scantinati dei grattacieli, Diane è una professoressa universitaria di fisica in pensione. Martin era un suo alunno, ora docente in una «scuola superiore del Bronx», letteralmente perso nello «studio compulsivo del manoscritto di Einstein del 1912 sulla teoria della relatività speciale».

Abbiamo cinque personaggi e qualche (rara) apparizione. Giunti finalmente a casa degli amici, dopo lo sballottamento in una clinica per curare le ferite, Jim e Tessa confermano che il blackout è ovunque, soprattutto lungo le strade deserte e spente di New York: «A un ampio incrocio, il vigile digitale era fermo, un braccio meccanico appena sollevato. Non potevano far altro che continuare a camminare».

Ma davvero a DeLillo interessa unicamente rappresentare con verve distopica il mondo nella sua «Quarta guerra mondiale»? O la regressione allo stato preistorico — preannunziato dall’epigrafe einsteiniana: «Non so con quali armi si combatterà la Terza guerra mondiale, ma la Quarta si combatterà con pietre e bastoni» — coincide con l’avvento della pura interiezione, della primigeneità del linguaggio?

Ci sono alcuni segnali di questa profonda tematizzazione lessicale. Partiamo dalla fluidità e dalla brevità del testo: DeLillo è abbastanza sbrigativo, (volutamente) poco preciso nei dettagli, rarefatto. Sembra quasi che si annoi a descrivere le situazioni («quando tutti si furono seduti – qua, là – i nuovi arrivati raccontarono del volo, degli eventi che erano seguiti e dello spettacolo delle strade di Midtown, il reticolo di vie completamente vuote»; insomma l’autore newyorkese classe ’36 ricapitola per sommi capi, senza la preoccupazione di ricreare il dialogo). Tutto viene liquidato un po’ in fretta. Le frasi sono perlopiù nominali, intere righe di elenchi. È chiaro che l’interesse di DeLillo è rivolto in altra direzione.

Titolo e parole

Su Alias Domenica del 31 gennaio lo scrittore confessa a Francesca Borrelli: «A un certo punto avevo pensato di titolare il romanzo Lo schermo vuoto, o Spazio e tempo». Sì, Lo schermo vuoto è la tipica intestazione da romanzo distopico. Il silenzio no. Sposta l’attenzione dall’immagine all’ascolto, dall’occhio all’orecchio. C’è un’evidente frizione intellettuale nelle maglie del libro. Si percepisce materialmente che DeLillo sta cambiando idea nel corso della stesura, sta mutando la prospettiva («Tutte le nostre vite, tutto questo guardare. La gente guarda. Ma cos’è che vede?»): è partito dall’utopia negativa per finire in un terreno sconosciuto che lui stesso inizia a esplorare nel momento in cui scrive. È una specie di estasi uditiva che egli avverte pensando all’isolamento tecnologico, alla fine dei rumori (traslato: all’inizio del morire).

In questo punto del racconto il silenzio diviene un’esperienza mistica. Esempio? «Gesù di Nazareth», «il nome radioso». E ancora: «Sapeva che il nome Gesù di Nazareth aveva qualcosa d’ineffabile che attirava Martin nella propria aura». «Era quel nome ad affascinarlo. La bellezza del nome. Del nome e del luogo». Qui lo stile delilliano – ellittico, assertivo – tende all’alfabeto enochiano, la «lingua degli angeli» («In una galleria, i turisti con le cuffie alle orecchie, immobili, esistenze sospese, gli occhi rivolti in alto verso le figure dipinte sul soffitto, angeli, santi, Gesù con i suoi indumenti, i suoi vestimenti»).

Ecco allora che i personaggi dinanzi allo schermo nero, più o meno consciamente, cominciano a riflettere sulla parola e sulle parole. Max snocciola a ripetizione il gergo sportivo del baseball. Martin si esprime in fisichese, cercando di spiegare minuziosamente le teorie di Einstein (mixandole con vertiginose intuizioni complottiste). Sempre Martin racconta che uno dei suoi studenti ha sognato un vocabolo («era un sogno incentrato sulle parole non sulle immagini»): «Ombrell’ascoso».

Tessa ripete, come un cabalista, il termine «criptovalute»: «In tutte quelle sillabe, da qualche parte, qualcosa di segreto, recondito, intimo». Più avanti cita il Finnegans Wake di James Joyce («prima che il sockson luccasse le dure»), l’opera sulla scia della «pura lingua» di Walter Benjamin, la lingua originaria che ricompone in sé gli idiomi umani in un’unità prebabelica.

Nella seconda parte avviene una sorta di teatralizzazione poematica della scena: i cinque attori del dramma salmodiano singolarmente, incastonano lunghi o brevi monologhi tendenti alla poesia.

Rammentando il frastuono nell’atterraggio di fortuna, Jim rivela che l’impatto assomigliava alla «voce di Dio in persona».

Dove siamo arrivati con la nostra ipotesi? Il silenzio non è un trattato di linguistica generale, ma presuppone il limite del dicibile, l’inattingibilità del ritrarre l’infinito di un volto, la bellezza enigmatica dell’umano. La citazione che riesce meglio a esemplificarne lo spirito è questa: «Forse ognuno di quegli individui rappresentava un mistero per l’altro, per quanto il loro legame potesse essere stretto, ognuno di loro era racchiuso nella propria individualità in modo così naturale da sfuggire a una definizione conclusiva, a una valutazione immutabile da parte degli altri presenti nella stanza?».

La povertà lessicale a cui progressivamente sembrano pervenire i personaggi non è così distante dall’afasia di Guido Guinizzelli, l’effetto annichilente degli strumenti espressivi del poeta quando scorge l’amata. Dismettendo la forma dialogica, raggranellando le briciole di ricordi confusi e infine avviandosi verso la fine della verticalità concettuale data dal verbo, nel territorio in cui permangono preistoricamente i nomi («sarebbe il caso di finirla, giusto? Solo che io continuo a vedere quel nome. Einstein»), DeLillo conduce i protagonisti – ognuno parte irriflessa della sua interiorità, à la Dostoevskij – alle sorgenti del logos, agli albori della nominazione, là dove si pronuncia, pur nella contraddittorietà del reale, la parola più beatifica ed esaltante: il silenzio.


Don DeLillo è autore del libro Il silenzio, edito da Einaudi

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