Gli abbonati a Netflix hanno superato i 203 milioni crescendo del 20 per cento in un solo anno. La compagnia ringrazia il mondo del lockdown e noi abbiamo l’ennesima conferma che il mercato della fiaba è un universo in espansione ininterrotta. La più solida, a occhio e croce, industria del futuro perché il suo prodotto è sempre comunque scarso rispetto alla domanda potenziale.

L’appetito di racconto infatti non è “fisico” e se lo forzi con nuove offerte non si volge in nausea. L’eccesso, anzi, riorganizza le sinapsi, sviluppa la competenza del consumatore e gli regala appetiti sempre nuovi e sconosciuti.

C’era una volta

Il Bengodi del “c’era una volta” è solo agli inizi, diviene ogni giorno più globale, ogni nazione ne è invasa, insieme alla competenza di chi si rende esperto col consumare cresce la capacità e la propensione culturale a farsi produttore. Insieme, si manifesta la pressione, non ancora movimento consapevole, delle generazioni più giovani per politiche industriali, incentivi tributari, protezionismi per quanto è necessario, che spingano allo sviluppo delle basi produttive nazionali e alle loro proiezioni sui mercati.

È questione di tempo, ma è certo che ogni governo vorrà fare da sponda politica a questa pressante richiesta di svolgere mestieri pregiati e influenti. Oltre che di esibire non meno di tutt’altri una qualche misura di soft power fatto oltre che di chiacchiere di incassi di mercato.

Nuove frontiere

Il mercato, è vero, è ancora in larga parte, monopolio della narratività anglosassone e di Hollywood, ma il mondo evolve al di là di quel dominio secolare perché proprio le sue storie d’amore, farse ed avventure, adorabili o irritanti, hanno formato lo spettatore globale sulla base di una lingua “madre” e condivisa del narrare audiovisivo.

Nelle ultime stagioni quella lingua ha preso a flettersi verso storie, caratteri, modi del montaggio che sono simili a quelli hollywoodiani, ma espressi da valori, ambienti e tensioni differenti.

A darci dentro e a coltivare i relativi spazi di mercato sono artisti e maestranze turche, indiane, sud coreane, pakistane, cinesi, ispaniche, tanzaniote e nigeriane che a partire dai più prossimi spazi socioculturali si fanno le ossa produttive, distributive e finanziarie. Per quanto intravediamo, la stessa Hollywood non teme le nuove fonti di racconto, ma cerca semmai di farne parte tenendo i piedi in ambedue le staffe: del vecchio potere incombente e di quello nuovo che lo insidia.

Parasite e gli altri

Alcuni esempi fra moltissimi. Con Parasite il coreano Bong Joon-ho, supportato da capitali e distribuzioni statunitensi, vince l’Oscar usando la metafora della gerarchia sociale del capitalismo coreano per alludere anche a quello d’oltre pacifico e mondiale. Coreana anche la serie Mr Sunshine sull’amore platonico e potente fra un ex schiavo e una principessa che incarnano il riscatto del Paese.

Turca le serie Ethos, tra “femminilità”, “moderno” e “fermezza” di valori e anche Fatmagul, che invece si rivolge coi tratti del fotoromanzo agli abitanti delle periferie che hanno ancora il cuore nei valori del villaggio.

I titoli del sultano più al sapor di sceneggiata si sono infilati rapidi nel palinsesto di Canale 5, dove si pratica l’atavismo in minigonna, con Daydreamer ovvero “Sogni ad occhi aperti” e si sono aggiunti alla sequenza soap che ancora vede i labbroni e gli zigomi rifatti di Beautiful, la mummia del mestiere. Se tanto ci dà tanto, questo è solo l’antipasto di cose analoghe d’ogni provenienza, alle quali per ora solo gli spari di Gomorra rispondono nel mondo.

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