Tra i diversi nostri grandi autori che a suo tempo uscirono dal tempo, come da un’inesplosa bolla di sapone, per visitare l’aldilà e poi tornare allo scrittoio a farci rapporto in bell’italiano, Giorgio Manganelli è forse il meno geometrico, il meno logico. Eppure quel che ci racconta in Dall’Inferno, questo luogo nebbioso che pare un quadro di Silent Hill col joystick sotto i pollici di Samuel Beckett, ha sempre l’aria di avere senso, e molto, anche se giusto un paio di spanne più in là di quanto non siamo capaci di capire immediatamente.

«Se mi ritengo morto», ci spiega da lì il Manga, fingendosi appunto morto cinque anni prima di morire, «mi sembra di essermi meno estraneo» - humanum a me nihil alienum gli fa eco Terenzio, nella nostra testa di lettori postumi e postumani. Interrogata sull’eternità, la ciarlatana voce di Virgilio che lo guida spiega a lui, neanche fosse un Buddha finalmente evaso dal Samsara: «L’eternità è essere vicini, vicinissimi».

Non so se Chiara Valerio, che un mese fa ha dato alle stampe un romanzo appunto sull’eternità e sull’insuperabile umanità dei morti, abbia presente queste paginette manganelliane. Quando Dall’Inferno usciva, lei aveva sette anni. Ma d’altronde, a dar retta alla sua irresistibile mitologia personale di dandy della postrema scena letteraria d’Italia (è lei, lo dico subito in barba agli spoiler, l’elegante vampiro di cui scrive in quel romanzo e, a ben vedere, in tutti i suoi), è proprio intorno a quell’età che ha letto tutto, consumando come un allegro Leopardi le risorse della biblioteca paterna a Scauri, invece che a Recanati.

E poi, a differenza dei suoi libri precedenti, questo Così per sempre uscito per Einaudi con un gatto in copertina è proprio quel tipo di lettura che ti rapisce da bambino, quando ancora non hai gli strumenti per capire quasi niente salvo il fatto che stai leggendo un’avventura vera, di quelle che contano, che possono farti compagnia.

Per scrivere finalmente un’avventura del genere, un grande romanzo per tutti che si ponga il problema di essere simultaneamente intrattenimento ed enciclopedia, specchio del mondo e abitabile alternativa ad esso, Chiara Valerio è dovuta uscire dal tempo: immaginarsi morta e contemplarsi vicina, vicinissima, a tutte le epoche.

Ha avuto l’intuizione, insomma, di raccontare una storia di vampiri. Così per sempre è il seguito, centoventicinque anni dopo, del Dracula di Bram Stoker. Ma lo è come l’Orlando furioso di Ariosto è il seguito dell’Orlando innamorato di Boiardo, o come Wide Sargasso Sea di Jean Rhys è il seguito (anzi, il prequel) della Jane Eyre di Charlotte Brontë.

Voglio dire che la storia, la trama, appartiene allo stesso universo narrativo del capolavoro che continua ma, invece di farne ortodossa fan fiction, ne decostruisce la sostanza proprio mentre ne conferma con rispetto maniacale i personaggi e le vicende.

Genealogia dell’originale

Ci squaderna la genealogia dell’originale, adoperandone come canoniche sia le fonti (dal medioevo bizantino e slavo al romanticismo londinese di John Polidori) che la sconfinata ricezione (Ann Rice, Francis Ford Coppola, Lady Gaga, i giochi di ruolo del Mondo di Tenebra).

Ce ne rivela profondità che l’autore, Stoker, non si sognava nemmeno, facendone la lente più limpida per capire l’antropocene, la socialità delle piante, l’anima del mondo, la discriminazione di ciò che è anormale e straniero. Ci dimostra che a certe grandi idee popolari della letteratura il concetto di originale, di autore, sta stretto.

E soddisfa soprattutto un interrogativo da un milione di sterline per la fanta cultura d’occidente italofona. L’interrogativo è: che ne sarebbe del più ri-scritto dei miti della tarda modernità se a riscriverlo oggi si mettesse un’umanista che ha letto tutta la biblioteca Adelphi e ha visto tutti i cartoni animati di Bim bum bam, che traduce Virginia Woolf per Nottetempo e scrive di prodotti di bellezza per Vanity Fair, che appare, nel ruolo di sé stessa, nei film di Nanni Moretti e nei memoir di Ginevra Bompiani, nelle stories instagram di Michela Murgia e negli acknowledgments dei saggi peer reviewed di Alessandro Giammei?

Che ne sarebbe del vampiro se finisse sotto la penna di una coscienza queer, femminista, scientificamente informata e politicamente impegnata, innamorata del passato eppure profondamente progressista? La risposta ha campeggiato, nelle settimane scorse, su grandi schermi pubblicitari animati. Sotto alla copertina di Così per sempre vi si leggeva: «Dracula non è morto, si è solo trasferito a Roma».

Al cospetto della diffusione del giallo in edicola, il vecchio poeta Umberto Saba si domandava se sarebbe arrivato un grande scrittore a cavare, da quel guazzabuglio pop, una sintesi di autentica letteratura che non rinunciasse al piacere del filone che l’avrebbe ispirata, come accadde ai romanzi di cavalleria con Ariosto e poi Cervantes.

Per riuscire in una simile impresa col gotico vampiresco, Chiara Valerio ha osservato un tirocinio formidabile: l’adattamento radiofonico, nel corso degli anni, di quei grandiosi romanzi ottocenteschi che incarnano il più viscerale dei piaceri di lettura: Dumas, Stevenson, Shelley, lo stesso Stoker.

Ambizione: enciclopedia

Questo artigianato ha innervato il suo consueto stile sintatticamente vertiginoso e pieno di ostinati tic (dialoghi senza segni d’interpunzione, insistenza su nomi e cognomi dei personaggi, un certo gusto per la virgola intonativa) di nuovi, prodigiosi poteri.

Ciò che ammalia immediatamente leggendo Così per sempre è il lessico desueto ed esatto, quello che da piccoli non ci impediva di continuare a leggere I tre moschettieri anche se non sapevamo associare ai nomi delle armi, o dei tessuti, o dei complementi d’arredo un’immagine precisa.

Basoli, martinicche, segnapiani, staffili, viti a calibro e fornelli di pipa: ai lemmi che punteggiano queste pagine come stelle intransitive basta il suono per acclimare il fantastico nel quotidiano, per fare della Roma e della Venezia d’oggi scenari facilmente avvicendabili con la Londra di oltre cent’anni fa (per altro ricostruita con pennellate precisissime, da Tintoretto, come se Valerio abitasse lì da sempre e da lì guardasse l’Italia).

Ma dicevo che è all’enciclopedia, oltre che all’intrattenimento, che questo romanzo punta, senza vergognarsi della propria ambizione. Ed è così: vi si impara del teorema di Noether, della fotografia spiritica, di fisica e biologia dei fluidi, nonché, ovviamente, di storia culturale del vampirismo.

Vi si impara di Carl Jung, con cui il Conte ha vissuto un’intensa bromance novecentesca che lo ha liberato dei limiti più banali della sua condizione (l’aglio, il sole, il crocifisso, eccetera). E vi si impara del sangue, questo essenziale veicolo biopolitico di controllo nazionale e patriarcale: si impara in particolare come smarcarsi dall’idea che il sangue (la discendenza, l’identità, l’etnia, eccetera) significhi qualcosa.

Così per sempre finge benissimo di essere la lunga, entusiasmante storia di un epico scontro tra due potentissimi vampiri che, un tempo, furono innamorati: Dracula e Mina, coi loro scagnozzi e i loro amanti, col loro gatto – anch’esso vampiro – che attraversa tutto il romanzo come fosse appena uscito da Il maestro e margherita di Bulgakov o da Sailor Moon su Italia Uno.

Chiunque abbia giocato a Vampiri, nella versione “Masquerade” o “Requiem”, o abbia amato il film con Gary Oldman e Wynona Ryder, o abbia letto religiosamente il classico di Stoker, si sentirà a casa in questo tripudio di realistica fantasia: finalmente benvenuta, o benvenuto, sullo scaffale dei Supercoralli.

Vorrà forse travestirsi da Giacomo Koch per il prossimo Lucca comics, o vorrà scrivere uno spinoff online in cui il Conte e Ion Tzara, suo fedele servitore gitano che apprezza l’aroma del caffè da Roscioli e teme i presagi di Coleridge, vivono un amore impossibile.

C’è però un doppio fondo in questa straordinaria prova narrativa di Chiara Valerio e io, che pure ho giocato e amato e letto vampiri dalla prima adolescenza, non posso che aprirlo, e rimirarne costernato lo scoperto, luminoso segreto.

Così per sempre, oltre a essere il più sfacciato e riuscito tentativo di tornare al romanzo tradizionale di tutto il postmodernismo italiano, è anche un attacco frontale, gentile e spietato, alle tradizioni che informano l’Italia e la sua cultura, anche romanzesca. È un romanzo queer, l’ho detto, ma non perché racconti una vicenda di gente queer.

Chiara Valerio usa il proteiforme mito del vampiro per spiegare cosa significhi essere un’intellettuale che guarda al futuro dalle capitali del passato e del passatismo. Ci invita a immaginarci senza fine nell’età dell’apocalisse permanente, ci sottrae l’alibi di una distinzione tra scienze e lettere, ci mostra che l’umanesimo è tutto ancora da farsi.

Sfuma i confini tra le cose, superando le distinzioni cartesiane tra bestie e persone, organico e inorganico, eternità e immortalità. Ci rivela che non è macabro, in fondo, sentirci meno estranei a noi stessi quando ci riteniamo morti.

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