La storia di Nicaredda raccontata da Vanessa Tonnini in ”Grammatica del desiderio“. L’isola di quasi un secolo fa, la fame, le malattie, la realtà spaventosa delle miniere. E un “arruso”, come chiamano gli omosessuali in Sicilia, che viene deportato al confino alle Tremiti
La Sicilia di quasi un secolo fa, i campi assetati, la miseria, le malattie, le viscere infuocate della terra. Con quei cunicoli stretti e ripidi che scendono direttamente all’inferno e, a volte, possono portare anche alla scoperta di qualcosa che ancora non ha un nome e ancora non si sa cos’è.
Tredici anni, è il più secco fra i sei figli di un minatore morto in una delle tante sciagure della profondità, la madre lo vende per 150 lire all’ex mezzadro don Alfonso che adesso fa il picconiere e ha bisogno di braccia giovani e forti. Dalla luce al buio, dall’aria alla polvere dello zolfo. È Nicaredda che racconta e si racconta rivolgendosi al suo innamorato Ruggero mentre attraversa più vite e più luoghi in un’Italia fascista dove quelli come lui, gli “arrusi”, come chiamano gli omosessuali in siciliano, finiscono al confino in isole lontane.
La brutalità del regime
Nasce nell’antica e spaventosa zolfara Grammatica di un desiderio, romanzo che è intreccio di intimità e di storia firmato da Vanessa Tonnini per la casa editrice Neri Pozza (pp. 222, euro 18), in copertina una bella fotografia di Ferdinando Scianna che ritrae il volto di un ragazzo e dentro la scrittura superba dell’autrice che è direttrice artistica di “Rendez-Vous”, il festival del cinema francese a Roma.
Grammatica di un desiderio scava nelle pieghe umane di un mondo che non c’è più e che c’è sempre, l’amore e la politica, le speranze e le paure, la brutalità e la propaganda di un regime, l’istinto, i turbamenti, le passioni proibite.
Un’esistenza quella di Nicaredda che comincia in mezzo a una campagna che è profumo e libertà e che poi viene inghiottita nell’ascensore che scivola «nella terra gracchiando di ferraglia», il viaggio soffocante verso gli abissi, una giornata di lavoro lunga anche diciotto ore, gli adolescenti e pure i bambini che sono preda degli uomini come quello che c’è davanti ai forni «che era grande e grosso, ma aveva un aspetto mansueto...non fu mai un segreto che a lui piacesse la compagnia dei carusi, e lui non ebbe mai timore a nasconderlo...».
E, all’improvviso, fra quelle gallerie infinite, la scoperta del desiderio difronte «a un branco di corpi, perfetti in bellezza». Poi la liberazione dai fumi velenosi del sottosuolo, poi ancora un’altra vita, l’attività antifascista, quella missione a Catania e la retata degli “arrusi” alla balera, le umiliazioni alle visite nella sala medica della questura, il muto interrogatorio, lo spavento e le risate di Mussolina e di Norma, di Testapetra, di Ciurara e Strummula.
L’orfano e il barone
La sentenza del questore Pelluso dopo la retata è implacabile: «...Ritengo pertanto indispensabile, nell’interesse del buon costume, e della sanità della razza... intervenire perché il male venga aggredito e cauterizzato nei suoi focolai. A ciò soccorre, nel silenzio della legge, il provvedimento del confino di polizia da adottarsi nei confronti dei più ostinati».
Così Nicaredda, all’inizio del 1939, si ritrova con una quarantina di altri siciliani sul vaporetto che attraversa il mare Adriatico per raggiungere quella che, dopo la miniera, sarà la sua nuova prigione, l’isola di San Domino alle Tremiti.
È lì che vengono deportati i dissidenti del fascismo ed è li che esiliano anche loro. I carabinieri che distrattamente li sorvegliano, tutti del nord, fanno fatica a capire una sola parola di ciò che dicono, abbandonati in una tetra camerata, sempre vittime di ogni sopruso: «Il confino all’inizio mi parve più nero della miniera, perché era senza regole e senza vie di fuga. Dovevo tener conto della violenza dei militi, dei precetti della detenzione, della prepotenza...».
Ed è lì che per la prima volta incontra Ruggero, il barone Lisca della Corte. Il figlio del minatore portato via dalla violenza della zolfara e il rampollo di nobile stirpe, appena un attimo e poi un sentimento che per Nicaredda diventa sempre più forte e nitido: «Fu in quei giorni di sconforto, in cui non sapevo dove andare e cosa sarei stato, che per la prima volta comparve una forza che non conoscevo».
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