L’ultimo album dei Negramaro si chiama Contatto. È uscito il 13 novembre scorso e, come si dice, è da allora in vetta alle classifiche. Ma Giuliano Sangiorgi, da sempre, ha qualcosa che non può non colpirti. Lo incontri per strada, in un bar, a una festa, o a un suo concerto, ed è sempre lo stesso. Una persona. Non una star dietro un muro di egocentrismo, non una star che si ripara dietro il castello dei suoi successi.

La prima cosa che fa non è parlare, ma osservare. Non è raccontare di sé, ma condividere le cose belle con gli altri. La canzone Contatto che dà il titolo all’album racconta precisamente Giuliano Sangiorgi, così come lo vedi: «Sì / la vita che volevo è tutta qui / gli amici che sognavo proprio così / fatti di vino rosso e di un bel film. / Ho fatto molti sogni per arrivare / qui».

Questi due concetti che sembrano opposti – il successo e il contatto – in Sangiorgi si fondono senza forzature. Il piacere della condivisione, mi dice, gli viene da sua nonna Stella, ma è anche di sua figlia, che si chiama Stella come la nonna di Giuliano. «Io le gioie devo condividerle subito», mi dice, «anche le ansie – purtroppo per chi mi sta vicino. Se una cosa è bella devo condividerla, se no non vale. Se no non vale il gioco».

Lo guardo nel suo studio, dove sono venuta a intervistarlo. Non lo conoscevo quando era un bambino, e neppure quando aveva vent’anni. Ma potrei giurare che, se lo avessi incontrato bambino o ragazzo, prima dell’esplosione dei Negramaro, avrei visto esattamente la stessa persona di oggi. Non mi è capitato con molte altre persone.

Lo studio di registrazione di Giuliano Sangiorgi ha un pianoforte che troneggia nella stanza, come fosse un amico di cui aver cura. Una chitarra, altri strumenti, un computer: tutto quello che serve per lavorare. Ma anche un divano comodo e qualche birra in frigo, che vuol dire che il posto in cui lavori è anche quello in cui puoi invitare amici, o fare musica con altri artisti, o semplicemente riposarti un po’. Perché la musica – questo Sangiorgi lo dice sempre – non è altro dalla vita. È molto semplice: sono la stessa cosa.

Eppure i Negramaro quest’anno hanno compiuto vent’anni – esistono dal 2000, la loro carriera è piena di primati – e la loro prima pubblicazione, l’album Negramaro, è del 2003. Non è facile non smettere di sentirsi così a casa, vitali e pieni di energia sempre nuova per qualcosa che fai da così tanto tempo.

Gli inizi

«Se devo cercare di capire perché ho iniziato a suonare», mi dice, «mi viene in mente mio fratello Salvatore». Salvatore ha cinque anni più di Giuliano, che invece è il più piccolo di casa. Per Giuliano suo fratello maggiore era una guida, qualcuno a cui guardare per scoprire il mondo.

«È stato lui a iniziarmi alla buona musica. Mi ricordo un concerto stupendo dove doveva andare Salvatore, al campo sportivo di Veglie, un paese in provincia di Lecce». Erano i CCCP. Salvatore e i suoi amici andavano ancora alle medie, e i genitori degli altri non volevano che andassero a un concerto a quell’età. Allora fu Gianfranco, il padre di Giuliano, a offrirsi di accompagnare suo fratello e gli amici. In macchina, quel giorno, c’era anche Giuliano. Lui e suo padre aspettarono Salvatore e gli amici fuori dal campo sportivo. «Il mio primo concerto in un campo sportivo è stato così: io fuori, in macchina con mio padre, mentre aspettavamo mio fratello. Questo ricordo mi emoziona ancora oggi».

Ma Giuliano ha iniziato a suonare anche «per diventare bello. Per piacere alle femminucce», ride. Alle elementari faceva dei concertini con la pianola Bompiani durante le feste: «avevo una band, ci chiamavamo i Big. Suonavamo una sola canzone, The Final Countdown degli Europe». E le bambine lo guardavano.

In realtà, gli altri due bambini non sapevano suonare. Giuliano aveva segnato sulla tastiera delle loro pianole gli accordi armonici, e teneva un piede sul piede di un bambino e un piede sul piede dell’altro. «Quando dovevano cambiare gli accordi sentivi un gridolino. Ero io che gli avevo schiacciato il piede per avvisarli».

Il successo e le origini

È difficile scegliere cosa riportare qui delle tante cose che Giuliano mi ha raccontato. Ognuna racconta qualcosa di lui, un aspetto, un desiderio. E, come dice lui, quello che è lui è anche quello che è la sua musica. Quello che mi dice racconta anche le sue canzoni.

Il rapporto con la madre e il padre – che gli raccontava favole fantastiche mentre andavano in Sicilia, sua terra d’origine, e a cui per i quarant’anni la famiglia regalò un pianoforte di cui Giuliano si innamorò – così presenti ma anche così discreti («l’unica volta in cui hanno provato a dirmi qualcosa è stato quando mi hanno chiesto se volevo andare al conservatorio e io gli ho risposto: “Se mi fate studiare musica mi fermo qui, perché la musica è la mia libertà”. E infatti non ho mai studiato musica né canto, o meglio ho studiato, ore e ore, ma da solo, soprattutto sui palchi, suonando»), il rapporto con i suoi parenti, la sua terra, il suo dialetto sono stati e sono fondamentali per la sua crescita.

Non ha mai avuto un momento di sbandamento? Tutto questo successo, quando è arrivato, non gli ha mai fatto perdere la testa? «No», mi dice, «perché se stai con un gruppo di amici», la sua band, «se parti dai paesini del Salento, anche se quando torni hai vinto il Festivalbar sei nel furgone che scherzi con loro, parlando nel tuo dialetto. Già quel gesto ti porta immediatamente indietro di dieci anni, ti porta indietro alla sala prove, ti fa stare ‘con le ali sempre pronte ma sporchi di terra’. È la fortuna di avere una band. Effettivamente mi chiedo spesso: se fossi arrivato al successo da solo sarei la persona che sono ora? Credo di no. Perché per me la musica è stata sempre questo: condivisione».

Suonare con gli amici di sempre è stato per lui «un sonar di riferimento per non perdere la strada: il mondo intorno a te cambia ma tu sei ancora con le persone che conosci da sempre. Questa è una sicurezza, una culla: quel dialetto, quel gioco di ruoli con gli amici, i posti a cui tornavamo. Diventi un gigante all’esterno, e dentro i tuoi amici ti prendono a sberle. È una cosa che ti proietta in avanti ma ti tiene coi piedi per terra. E non è una casualità. L’hai scelto trent’anni prima. Lo scegli ogni giorno».

E lui l’ha sempre scelto, di suonare in una band: già da quando, piccolissimo, passava i suoi sabati a suonare per finta con una racchetta di legno gli U2. Aveva disegnato sul muro le sagome del gruppo e Bono Vox era lui, che cantava e suonava Sunday Bloody Sunday. Il resto della settimana, raccoglieva in casa tutti i soldi che trovava, e poi andava a comprare i vinili. «I 45 giri costavano 3700 lire. Alla fine riuscivo a mettere insieme i soldi per uno o due vinili». Ed era felice.

E ancora gli chiedo, c’è una domanda che mi sono fatta spesso: quando suonava le prime volte con i Negramaro nei locali, ha mai pensato che potessero diventare così grandi? «Mai», mi risponde immediatamente. «Quando abbiamo finito il nostro primo concerto a San Siro ho chiesto agli altri se ci fossimo mai detti: un giorno suoneremo in uno stadio. Non ce lo siamo mai detti. Il nostro sogno era pubblicare le nostre cose. Questo importava. Solo questo».

Il desiderio di piacere agli altri non c’entra? Giuliano dice che se lo è chiesto spesso. «Nei momenti di successo a volte pensavo: sto suonando veramente perché mi brucia o perché è sempre più bello piacere? Adesso ho capito che anche l’edonismo fa parte dell’essere artisti, è sano, ma soprattutto che non avrei potuto fare altro perché io questo posso fare per stare bene: suonare. Piacere agli altri non c’entra».

Giuliano è molto sincero, diretto. Non credo che gli importi creare un’immagine di sé, credo che in questo momento, mentre mi parla, gli importi dirmi la verità. Quando gli chiedo il ricordo più bello che ha mi risponde che sono tantissimi, troppi, ma poi me ne racconta uno. «Mi ricordo che la sera in cui abbiamo firmato il contratto con la Sugar», la nota casa discografica di Caterina Caselli, «abbiamo litigato tutti per la tensione. Era il dicembre 2002. Eravamo felicissimi, però avevamo appena firmato per cinque dischi. C’era una tensione strana, non aveva senso quel litigio, non c’era motivo. Ero emozionato perché avevo capito che stava cambiando la nostra vita insieme. Che da quel momento in poi si faceva sul serio».

Tutto ciò da un lato creava tensione, dall’altro era una bellissima prospettiva. «È un’emozione strana. Non so se riesco a spiegarmi». Certo che ti spieghi, vorrei dirgli, credo che ognuno di noi abbia vissuto un momento così.

Gli stadi

Un’altra cosa che mi chiedo spesso è: chissà cosa vuol dire suonare in uno stadio. Giuliano non ha mai pensato: non ce la faccio ad affrontare tutte queste persone, ho troppa paura? «No. Io sento una grande paura, ansia, sudore, freddo, tutto: ma non ho mai pensato non ce la faccio ad andare davanti a tante persone. Perché mi sento completo. Ho sempre pensato che da qualunque parte mi colpiscano io so reagire. La prima volta, a San Siro, poco prima dell’inizio non riuscivo a respirare. Allora sono uscito a guardare il pubblico, da solo, da dietro l’impalcatura. E ho capito che erano tutti lì per noi, per far festa. Che non era una battaglia. Rientra nella mia idea di musica, che non è mai competizione».

Poi ha trovato degli espedienti: ripassava lentamente la scaletta in testa mentre cantava. «Mi tenevo aggrappato a qualcosa di tangibile, anche perché volevo ricordare tutto. Degli eventi molto grandi a cui avevo partecipato prima», per esempio il Live Aid al Circo Massimo, con un milione di persone, o i vari concerti del Primo maggio, «non ricordo nulla. Invece da allora ho imparato a tenere il momento. Perché voglio ricordare».

Giuliano, cosa vedi davanti a te quando esci sul palco? «Vedo un pubblico che ho già visto prima di entrare in scena, dietro l’impalcatura. È come se fossi entrato con loro, se avessi aspettato insieme a loro il concerto, come se avessi cercato il posto migliore dove vederlo, come se fosse una cosa più vera di quello che succede sul palco. È come se fossi dentro il pubblico. Non voglio nessuna luce in faccia. Io voglio vedere il pubblico. Voglio far festa insieme a loro».

Devi solo ballare

Una delle canzoni che ho più amato di Contatto è Devi solo ballare. È dedicata a Stella, la figlia di Giuliano, ed è una canzone che, effettivamente, ti fa venir voglia di ballare, cantare, di essere libero. Penso che sia proprio questo che Giuliano voleva dire a Stella: sii libera, sii felice.

«Sì, ma non c’è solo questo. Non è solo una canzone per Stella ma per tutti i figli dei componenti della band, per tutti i nostri figli. Auguro la danza per loro come mondo ideale. La danza è una piccola società, è un passo a due, è equilibrio perfetto, sincronia, rispetto delle regole, anche quelle tacite. C’è tutto nella danza. In questa canzone ai nostri figli non auguro solo leggerezza ma anche e soprattutto un mondo perfetto come la danza. Che non è quello che stiamo vivendo oggi. Per questo mi sembrava giusto metterla nell’album dei Negramaro, invece di tantissime altre canzoni più dolci o profonde che ho scritto per mia figlia».

Una canzone – come moltissime canzoni dei Negramaro – a cui è impossibile resistere. La metti su, e «devi solo ballare / fino a perdere la pelle / devi solo cantare/ per raggiungere le stelle / per rubarne solo una che / faccia stare bene almeno te / Devi solo ballare».

Che cos’è la musica, Giuliano? «Un tornado. Come l’amore. Come mia figlia Stella. È “tutta una serie di astri e di polvere bianca scaricata dal cielo, ma senza i tuoi occhi il cielo non brillerebbe più”, come diceva Lucio Dalla». Giuliano sorride. E nel suo studio c’è un’aria bellissima, di forza, devozione, e di rinascita.

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