Il 23 giugno 1973, in Vaticano, Paolo VI inaugurava la collezione d’Arte religiosa moderna che lui aveva voluto con «una straordinaria determinazione» (Antonio Paolucci). Per l’occasione teneva un discorso, nella contigua cappella Sistina, che, pur nella soddisfazione per il passo fatto, non aveva nulla di celebrativo. Era un discorso puntellato di domande, come se l’apertura di quella sezione dei musei Vaticani rappresentasse non un punto di saldatura dopo decenni di incomprensioni, ma una sfida. Domande drammatiche, secondo lo stile di quel grande papa che sentiva come una profonda ferita la frattura avvenuta tra la chiesa e la modernità. Si chiedeva Montini: «La chiesa fu maestra di Arte, dov’è in questo domicilio delle sue glorie artistiche dei secoli andati un posto per noi moderni? La chiesa s’è fermata alla storia ormai spenta dei tempi trascorsi?». Non mancavano ovviamente domande anche all’altra parte in causa, cioè gli artisti. Ma le domande che un’istituzione ha il coraggio di rivolgere a sé stessa, sono inevitabilmente più interessanti e meno scontate.

Il grido di Bacon

Nelle raccolte della collezione, arricchite con tante donazioni, era entrato anche un artista che certo poteva essere suscettibile di scandalo: era Francis Bacon presente con una delle sue varianti (datata 1961) ricavate dall’Innocenzo X, capolavoro di Vélasquez. Un papa a bocca spalancata, contratta in un urlo di spavento o di orrore davanti all’inesplicabilità della storia. Perché soffermarsi proprio su Bacon? Perché il suo caso ha un’emblematicità senza paragoni.

Nel 1943 l’artista nato da famiglia cattolica a Dublino, ma da sempre in completa rottura con la sua identità di appartenenza, aveva di fatto esordito con un’opera imprevedibile: Tre studi per figure ai piedi di una Crocifissione, oggi conservata alla Tate Britain e considerata uno dei capisaldi dell’arte del secondo 900. In quell’opera Bacon ripropone e rimodula in termini contemporanei un soggetto come quello della Maddalena ai piedi della croce. Un soggetto sul quale si erano cimentati per secoli artisti, anche i più grandi, quasi sempre su committenza da parte della chiesa. La differenza sostanziale è che Bacon era stato investito dall’urgenza di quel soggetto, in modo del tutto personale e decontestualizzato. In parole povere, nessuno glielo aveva “ordinato”. Così è accaduto che l’opera più drammaticamente e intensamente “cristiana” del 900 sia nata non solo al di fuori da ogni rapporto con la chiesa, ma addirittura “contro” di lei.

Si può obiettare: in che senso quell’opera di Bacon può essere definita, aldilà delle sue intenzioni, come “cristiana”? Uno dei critici più sensibili all’opera di Bacon, Michel Leiris, aveva indicato nella parola «presenza» la parola chiave per decifrarla. I suoi quadri pulsano per una «presenza» da cui l’artista e noi non possiamo scantonare. L’esca che Bacon ha teso con la sua opera è proprio quella di aver rimesso al centro la presenza di Cristo, che è evocata in modo inequivocabile e “scandaloso” dalle tre figure che convulsamente gridano ai piedi della Crocifissione, come il titolo precisa. Cristo tornava dunque con Bacon a essere una presenza anche brutalmente reale, dopo un’infinita serie di immagini banalizzanti ed edulcorate («siamo ricorsi ai surrogati, all’“oleografia”», aveva detto nel suo “mea culpa” Paolo VI).

È passato quasi mezzo secolo da quel discorso di Paolo VI e certamente tra chiesa e artisti è ripreso un dialogo, all’insegna di una stima reciproca che va oltre la questione dell’adesione di fede. Abbiamo assistito a tanti interventi di grande qualità che hanno coinvolto nomi di prim’ordine come, ad esempio, Jannis Kounellis, Dan Flavin, Mimmo Paladino, Ettore Spalletti, Stefano Arienti. È un’intesa maturata su un minimo comun denominatore, quale è il riconoscimento della centralità del fattore spirituale nell’esperienza umana. Indubbiamente c’è un clima diverso, sono caduti tanti veti ideologici e da parte degli artisti è cresciuta la stima nei confronti della chiesa.

La chiesa da parte sua ha accettato di aprirsi a linguaggi e sguardi nuovi anche se “esterni”. In un certo senso si fa mediare dagli artisti per aprirsi verso sensibilità profondamente cambiate, proprie degli uomini e delle donne del nostro tempo. Però resta la sensazione di un isterilimento di fondo, di un’afonia davanti alla necessità di dare una forma a quella presenza, a quella corporeità che fa ancora sobbalzare davanti ai quadri “scandalosi” di Francis Bacon. Forse però questo è il tempo delle metafore e delle analogie; delle intese proficue maturate su territori neutrali; della paziente costruzione di esperienze visive, concepite nel segno di speranze condivise. È il tempo dell’attesa, che però per essere credibile (e davvero fertile) non può non fare i conti con la nostalgia per quella presenza in cerca di una forma, nuova e imprevista, con la quale palesarsi.

 

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