Se non siete mai saliti su una montagna il giorno di un tappone non potete immaginare quella puzza che rovescia lo stomaco, un mélange di scarico di motori e frizioni bruciate. Se non siete mai arrivati in cima all’Angliru non sapete cosa sia la paura di cadere: da una salita, con la macchina che urla di impotenza.

Quando ti vedono in stallo, arrivano i tifosi appollaiati lì da giorni, e cominciano a spingerti via. Se neanche così riesci a ripartire, allora ti sollevano di peso e ti parcheggiano sull’erba, di lato. Hai perso, e non sarai l’unico.

Oggi i corridori della Vuelta, il Giro di Spagna, dovranno andare lassù in bicicletta. Oddio, in bicicletta: Gilberto Simoni, unico italiano ad aver vinto sull’Angliru, nel 2000, confessò di aver messo il piede a terra. Il tratto più crudele della salita più dura d’Europa ha un nome, la Cueña les Cabres, con 300 metri al 22% e punte che superano il 23%.

La sensazione è quella di ribaltarti. Televisivamente è una meraviglia, quando ci sei dentro un po’ meno. Per fortuna nove su volte su dieci c’è la nebbia e piove, fa freddo ed è grigio, non vedere dove bisogna arrivare in questi casi è un vantaggio.

La sua scoperta

L’Angliru prima non si chiamava neanche così. Aveva un nome che non faceva paura: La Gamonal. È sulla Sierra del Áramo, nella località di Riosa, nelle Asturie, a quindici chilometri da Oviedo. Una salita di 12 chilometri e mezzo per 1.266 metri di dislivello: significa che quando comincia sei a 304 metri di altitudine e in vetta sono 1.570.

Nessuno nel resto del mondo conosceva quell’inferno verticale, finché un giorno - era il 1996 - uscì un articolo di uno specialista in altimetrie, Mario Ruiz. Il titolo della rivista "Ciclismo a Fondo" era di quelli fatti apposta per incantare i cicloamatori: «Affronta la vetta più dura della Spagna: La Gamonal, un colosso che fa paura».

Enrique Franco, allora direttore della Vuelta, stava cercando una salita mitica da opporre al Tourmalet, al Galibier e al Mortirolo: capì all’istante che quella Gamonal era perfetta. La pubblicizzò con il suo secondo nome, Angliru, e quello fu il suo colpo di genio: Angliru è una parola che incute paura.

Le leggende hanno bisogno di storie, e il ciclismo è uno sport che si alimenta del suo passato, delle fotografie in bianco e nero, dei duelli raccontati di padre in figlio. L’Angliru fa eccezione: è così spaventoso da essere diventato leggenda senza avere una storia.

Senza Pantani

La prima volta era il 1999, la Vuelta introdusse l’Angliru nella speranza di vedere un duello verticale tra Marco Pantani e José Maria Jiménez, il Pirata e la risposta spagnola, El Chava, il Selvaggio. Il patron del Tour, Jean-Marie Leblanc, non la prese benissimo: l’anno prima aveva patito l’onta dello scandalo, con il caos Festina, gli arresti al traguardo, la maglia a pois in garde-à-vue, lo sciopero dei corridori. «Sono sorpreso dalla durezza di questa corsa», disse.

Quello che intendeva è che non si contrasta il doping con pendenze oltre il 20%. Il sindaco di Riosa disse invece che il mondo doveva prepararsi a vedere un gioiello che era stato tenuto nel retrobottega. Forse avevano ragione tutti e due. Ma Leblanc doveva vedere ancora il peggio, l’era di Lance Armstrong stava per cominciare.

L’Angliru al contrario ci mise pochissimo a costruirsi una sua epica. Nel ciclismo si erano aperti gli anni del ripido ad ogni costo. L’esagerazione come standard, lo spettacolo come fine ultimo. Vedere i corridori che vanno su con la faccia martoriata di chi sta esalando l’ultimo respiro è bello? È un’idea un po’ sadica di sport.

Il duello Jiménez-Pantani però non andò in scena. In attesa di finire i suoi giorni in un desolato hotel di Rimini la sera di San Valentino di cinque anni più tardi, lo scalatore romagnolo era morto una prima volta a Madonna di Campiglio, quando lo avevano escluso dal Giro in maglia rosa. Sull’Angliru Jiménez vinse con le mani sul manubrio e dedicò la vittoria al suo idolo.

«Marco sta vivendo momenti difficili e voglio incoraggiarlo». El Chava non poteva immaginare che sarebbe morto due mesi prima di Pantani, a 32 anni, dopo aver lottato con la depressione, i ricoveri in clinica, discese ancora più ardite di quelle salite da leggenda.

Il Teide e le salite ardite

«È come guardare fuori dal finestrino di un aereo», disse dopo aver provato l’Angliru Tony Rominger, vincitore di un Giro e tre volte di fila della Vuelta. È sempre questione di prospettiva. Per anni i corridori hanno scelto il Teide come sede dei loro sempre più lunghi ritiri in altura.

Il vulcano di Tenerife vanta un clima mite, strade molto varie su cui allenare diverse abilità, un panorama unico al mondo (di notte ti sembra quasi di toccare le stelle, come in un planetario), la possibilità di dormire a più di 2mila metri di altezza, e – perché no – il vantaggio di essere difficilmente raggiungibile dagli ispettori dell’antidoping.

C’è un’altra particolarità che fa del Teide un posto unico al mondo: ha la più grande ombra del mondo proiettata sul mare, che copre persino le altre isole delle Canarie. Una delle tante ombre di questa storia. In Spagna i corridori di tutto il mondo sono di casa.

Molti hanno scelto Andorra: il primo fu Purito Rodriguez nel 2007, nel 2020 erano 60 i professionisti residenti nel piccolo stato sui Pirenei, a luglio scorso 120. «Ci sono 21 passi alpini a breve distanza», raccontano. Ma la principale attrattiva è un’imposta sul reddito delle persone fisiche al 10% rispetto al 47% della Spagna.

Il belga Remco Evenepoel, che nel 2022 la Vuelta l’ha vinta e poche settimane dopo è diventato campione del mondo in Australia, in Spagna ha comprato casa: non ad Andorra, ma nella zona di Alicante. Ha chiesto all’architetto di costruirgli una camera ipobarica per dormire: l’aveva sperimentata a Denia, a meno di un’ora da lì, sulla Costa Blanca, all’hotel Synchrosfera. Averla in casa è più economico.

Le camere ipobariche

Il Synchrosfera è a un’ora di macchina dall’aeroporto di Alicante, lo gestisce l’ex professionista russo Alexandr Kolobnev, 42 anni, bronzo ai Giochi di Pechino, una positività a un diuretico nel curriculum. È normale per chi pratica sport di resistenza, come il ciclismo, allenarsi in altura: la disponibilità di ossigeno diminuisce, i reni aumentano la produzione di eritropoietina, un ormone che stimola il midollo osseo ad aumentare i globuli rossi migliorando la capacità aerobica e le prestazioni sportive.

Al Synchrosfera si può dormire in camere ipobariche, spazi chiusi dove le condizioni di alta quota vengono simulate mantenendo una bassa concentrazione di ossigeno. Lo fanno il campione del mondo Mathieu van der Poel, il vincitore di due Tour de France, di due Lombardia, un Fiandre e una Liegi Tadej Pogacar, e molti altri.

L’Agenzia mondiale antidoping non vieta questa pratica, ma i corridori che vivono e si allenano in paesi dove la camera ipobarica è considerata doping - per esempio l’Italia - sono indubbiamente svantaggiati. Una volta le squadre venivano nel nostro paese in ritiro: il clima è buono, le montagne non mancano. Adesso vanno tutte in Spagna: dicono che lo fanno per le strade, che sono più sicure.

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