A partire dal 1950, per ben trentasette anni, le ristampe di 1984 vennero funestate da un refuso in sé minimo, quasi insignificante a prima vista. L’errore, in tutto e per tutto casuale e involontario, capitava nel finale del romanzo, in un momento talmente chiave da metterne in dubbio il messaggio che l’autore voleva trasmettere. 

Tutti noi sappiamo che il libro si chiude con torture indicibili. Possiamo non avere mai letto il libro. Possiamo non ricordare che il nome del torturato, il protagonista, è Winston Smith e che la sua rieducazione viene completata nel ministero dell’Amore della superpotenza totalitaria di Oceania perennemente in guerra con uno degli altri immensi stati in cui è diviso il mondo di 1984. Sappiamo tutti, però, che nel mondo del romanzo di George Orwell il potere supremo è nelle mani di un dittatore senza un vero nome, chiamato con l’inquietante epiteto di Grande Fratello.

Sappiamo inoltre che, in questo mondo futuro, alle persone è negata una vita privata perfino nel segreto dei pensieri più intimi, perché il Grande Fratello è in effetti un Grande Occhio onnipresente che tutto osserva e controlla, capace di spingere il suo sguardo ovunque, inclusa la mente delle persone. Sappiamo infine che qualunque cosa affermi il Grande Fratello diventa vera per il semplice fatto che l’ha affermata, non importa quanto contrasti con l’evidenza della realtà o con ciò che si è sempre saputo.

Chiunque sollevi dubbi sulle parole del Grande Fratello, anche solo nell’intimo dei propri pensieri, diventa un eretico e va trattato di conseguenza, va condotto nel ministero dell’Amore, nella famigerata stanza 101, rieducato ossia torturato e poi, quando sarà, dopo un illusorio quanto indeterminato reinserimento nella società, vaporizzato. Questi aspetti del mondo immaginato da Orwell sono noti a tutti perché fanno ormai parte di un sapere comune; tutti ne hanno sentito parlare perché il Grande Fratello è una figura mitica non meno popolare di Ulisse o Achille.

Che molte persone ne abbiano una nozione vaga, imprecisa, se non proprio sbagliata, rientra nella natura delle cose. I miti sono miti proprio perché soggetti a rielaborazioni e rimescolamenti continui; perché le versioni apocrife si sovrappongono a quelle autentiche, il sentito dire alle testimonianze dirette, le illazioni speculative al racconto veridico, il falso all’autentico. Visto in questi termini, il refuso in cui inciampò la casa editrice londinese che per prima pubblicò 1984 è in fondo un segno premonitore, un’anticipazione delle fortune del libro.

2+2=5

Andiamo dunque all’ultimo capitolo, a pagina 296 della prima edizione inglese, pubblicata nel 1949 da Secker & Warburg; ne mancano appena otto al fatidico The end. Ormai rieducato, Winston Smith ha lasciato il ministero dell’Amore per tornare alla vita di un tempo. A una parvenza di vita, in effetti. Ridotto a uno stato quasi vegetale, è ora poco più di un morto che cammina, un fantasma che trascorre il tempo libero seduto a un tavolo solitario del caffè del castagno. Beve il mefitico gin Vittoria e risolve problemi scacchistici. In uno di questi tristissimi momenti, lo sguardo perso sulla scacchiera mentre dal teleschermo giungono preoccupanti notizie sull’andamento della guerra, Smith comincia a vagare coi pensieri e, senza rendersene conto, scrive qualcosa con la punta di un dito nella polvere che vela il tavolo: 2+2=5.

Il risultato errato dell’operazione è stato la chiave di volta del suo processo rieducativo. Ormai Smith nega senza problemi che due più due fa quattro, è anche giunto a credere nel profondo che il risultato corretto sia davvero cinque. Quello strafalcione vergato nella polvere è per noi lettori l’estrema fitta al cuore; ci dice una volta per tutte, semmai ce n’era bisogno, che Smith è un vinto. Il sistema gli è entrato nella testa, gli ha preso anche l’anima, i pensieri più segreti.

Ebbene, nelle ristampe mandate in libreria dai tipi di Secker & Warburg, per un problema tipografico, il cinque saltò e da allora, per trentasette anni, l’operazione si è presentata così: 2+2=

A volte il caso sembra operare con una perfidia e precisione tali da non meritare il nome che porta. Nella miriade di caratteri che il libro metteva a disposizione, scelse di sopprimerne uno decisivo per l’interpretazione del romanzo. Non contento, ne scelse anche uno che non facesse sentire la sua mancanza.

Immaginiamo per un attimo che non sia il caso il responsabile; che Orwell, mosso da un ripensamento, abbia tolto quel cinque per concedere a noi lettori un lumicino di speranza ovvero che Smith, scrivendo l’operazione nella polvere, si sia fermato al segno uguale lasciando il risultato in sospeso perché non è stato piegato del tutto, perché in un recesso nascosto della sua persona una voce flebile ma decisa si fa ancora sentire e seguita imperterrita a ripetere quattro nonostante le torture e il Grande Fratello. È un’ipotesi tutto sommato plausibile, no? E difatti l’intervento del caso è passato inosservato per quasi quattro decenni. I lettori lo avranno probabilmente interpretato come un momento di titubanza.

Del resto, per noi poveri mortali è più facile credere a un briciolo di luce che non al buio assoluto. George Orwell, l’unico che avrebbe potuto riconoscere un errore di stampa in quel numero mancante, era morto appena quarantaseienne in un ospedale di Londra il 21 gennaio 1950, poco prima che le edizioni fallate cominciassero a circolare nel Regno Unito. Un altro scherzo del caso.

The Last Man in Europe, il titolo che in un primo tempo Orwell aveva pensato per 1984, rimarcava proprio la sparizione che fatalmente avrebbe atteso l’uomo occidentale una volta venuta a mancare ogni forma di speranza. E se è vero quel che si dice, ovvero che la speranza è l’ultima a morire, il finale del romanzo, mostrandoci un uomo ridotto a un automa senz’anima, pronto a tradire chiunque, a cominciare da sé stesso, prospetta appunto un mondo dove anche la speranza è defunta.

La sparizione del 5 andava invece in senso contrario, riaccendeva una fiammella che Orwell voleva ben spenta perché il monito della triste parabola di Winston Smith non venisse annacquato o frainteso. Nonostante gli sforzi dell’autore e malgrado puntasse a una scrittura trasparente «come il vetro di una finestra», dalla sua comparsa in libreria, 1984 è andato soggetto a una miriade di travisamenti, molti dei quali niente affatto accidentali.

I travisamenti sul piano politico

Su tutti il modo in cui la destra, in particolare quella americana, ne fece una bandiera da sventolare contro il comunismo. Grazie anche alle traduzioni in più di trenta lingue che la Cia finanziò in giro per il mondo, l’impatto del romanzo sulla cultura della guerra fredda è stato enorme e l’ha forse plasmata più di molti saggi e pamphlet politici. Di sicuro gli ha fornito un glossario, un insieme di termini di un’efficacia impareggiabile la cui fortuna è perdurata ben oltre il disfacimento della cortina di ferro, resistendo fino ai giorni nostri.

Orwell visse abbastanza da vedersi travisato anche dai lettori di sinistra che lo accusarono di avere rappresentato in maniera calunniosa gli ideali del comunismo. Precisare in più di un’occasione che il romanzo non voleva essere un ripudio della rivoluzione, ma un monito contro la rivoluzione tradita, servì a poco. I tempi non erano ancora maturi perché tutti potessero ammettere che le speranze alimentate dalla rivoluzione russa non avevano niente da spartire con gli orrori pure evidenti del regime sovietico. D’altro canto, che 1984 sia stato malinteso tanto a destra che a sinistra attesta che la sua forza non si esauriva nel suo monito politico.

Vedere in 1984 una mera denuncia delle storture del regime sovietico è perciò fuorviante, prima ancora che riduttivo. Che il Grande Fratello non sia soltanto una proiezione di Stalin ce lo ha mostrato la fortuna che ha avuto in Italia questa figura odiosa e soffocante, fortuna in buona parte dovuta anch’essa a un errore. Chiunque abbia dimestichezza con la lingua inglese lo sa bene: big brother sta per fratello grande, quello che colloquialmente chiamiamo fratellone o, in termini più formali, fratello maggiore.

Nessuno si è però mai sognato di correggere la scelta di Gabriele Baldini, che tradusse il romanzo nel 1950 per Mondadori. Da allora il Fratello Maggiore è rimasto il Grande Fratello, e lo si può capire. L’espressione è ormai un neologismo e appartiene più al linguaggio comune che non al libro. Correggere l’errore avrebbe significato privare gli italiani di qualcosa che fa ormai parte del loro immaginario. Senza contare che Grande Fratello è un’espressione efficace e straordinariamente suggestiva; di sicuro più suggestiva di Fratello Maggiore o Fratellone o Fratello Grande. Ciò che è sbagliato funziona meglio di ciò che è giusto, in questo caso, e qualcosa di simile potrebbe essere detto di altre parole chiave del romanzo. Soluzioni quali bipensario o psicoreato o Neolingua non sono errori in senso stretto, ma pensadoppio, pensacrim e Parlanuovo, per quanto forse meno eleganti e sicuramente meno suggestivi, rispecchiano più fedelmente lo spirito dell’originale.

È senza dubbio vero che la manipolazione continua del linguaggio e la continua riscrittura della Storia messe in atto nel mondo del Grande Fratello sembrano quasi auspicare travisamenti da parte di lettori e traduttori. È tuttavia poco credibile che Orwell li avrebbe accettati senza fare una piega, vista la meticolosità con cui ha replicato a chi lo ha frainteso sul piano politico.

Un altro finale

Per comprendere meglio l’importanza di espressioni come Grande Fratello o bipensiero, proviamo a mettere da parte il mondo che ci viene descritto nel romanzo e concentriamoci sul nocciolo della trama. 1984 è la storia di un uomo che grazie all’amore trova il coraggio di ribellarsi. Quest’uomo decide di schierarsi dalla parte di ciò che egli crede giusto e opporsi a colui che considera il male oppressore, il famigerato Grande Fratello. Il finale è tuttavia tristissimo perché Winston Smith tradisce sé stesso e la ragazza che crede di amare, la lasciva Julia del Reparto Narrativa.

Se leggiamo il romanzo da questa prospettiva infelice è arduo non chiedersi perché il finale non sia diverso. E diverso non vuole dire pretendere un classico happy ending, che qui è chiaramente impossibile, bensì un finale comunque triste ma diverso. In altre parole, perché Winston Smith non ci viene descritto abbastanza forte da sopportare il dolore e tenere duro? Perché non si lascia morire, diventando un eroe come tanti altri hanno fatto nella storia in circostanze simili? Perché noi lettori veniamo costretti alla vista mortificante di un individuo che nel momento chiave si dimostra un piccolo uomo? Perché il male deve vincere su tutta la linea, avere la meglio tanto sulla società quanto sulle singole persone?

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